Guardando fisso in camera, il protagonista Lucas (Paul Kircher) approfondisce quello che le immagini mostrano durante lo scorrere del film. Lo sfondo è nero, il primo piano non lascia respiro, il ragazzo è incorniciato spalle al muro non permettendo a nulla, se non alle sue parole, di interagire con gli spettatori. Il film è Winter Boy – in originale Le lycéen – e il suo regista e sceneggiatore è Christophe Honoré.
Presentata in anteprima al Toronto International Film Festival, l’opera è l’esplorazione e liberazione da un dolore che tocca tutte le sfere del giovane Lucas. La morte di suo padre, l’accudimento da parte della madre, il rapporto col fratello, l’approfondimento della sessualità. Temi molteplici che si riversano in un unico lavoro, in cui ogni tassello della vita dell’adolescente viene decostruito per essere poi analizzato e rimesso insieme.
Lucas, protagonista incontenibile
Lucas si mostra nudo, metaforicamente e non, mentre la sua fragilità si percepisce da ogni singolo angolo del proprio corpo e da ogni scorcio da cui permette di spiare la sua mente. Quella che spesso si attorciglia, gli toglie le parole e le trasforma in spasmi, in angosce. Nel bisogno di un aiuto medico e di una puntura per calmarlo.
Meglio se tra le braccia della madre, rimasta vedova, interpretata da Juliette Binoche, in una famiglia che deve fronteggiare la morte faccia a faccia, rendendola visibile anche allo spettatore. Che non parla mai, ascolta soltanto quello che il protagonista ha da dire, come un fiume incontenibile che ha deciso di straboccare oltre i margini.
La Parigi grigia e dolorosa di Winter Boy
L’aria funerea che si stende su tutto il film, aleggiando nelle passeggiate parigine di Lucas, nei suoi incontri fugaci, nel suo bisogno di trasformarsi perché l’esistenza lo ha messo di fronte a un cambiamento da cui non vuole sottrarsi. Allora cerca di essere del tutto nuovo: di non rivelare il proprio nome a un giovane conosciuto tramite app, di vivere la prostituzione come un gioco, anche di innamorarsi, forse, guardando a un ragazzo più grande e lasciandosi assuefare dalla sua arte. Tutto nel film è un progredire del protagonista all’interno di un’aura grigia e artefatta, come quella capitale che visita da turista e in cui finirà per perdersi, col rischio di non sapersi più ritrovare.
Giovinezza, vita e morte in Winter Boy
Riflettendo in solitaria sul proprio ruolo di figlio, su cosa significa diventare grandi e di come quella parentesi di una settimana lontano dalla provincia sia un’istantanea che ricorderà per tutta la vita, Winter Boy vede Lucas accompagnato dallo spettatore nella sua personale ricognizione di una giovinezza gracile, da trattare con delicatezza, che desidera comunque bruciarsi e imparare. Fronteggiare l’esterno, confrontarsi con ciò che accade fuori, avere a volte la sensazione che sì, anche lui a volte desidererebbe morire.
Le cicatrici che restano
Aprirsi al pubblico attraverso il discorso diretto con la rottura della quarta parete lascia lo spazio a una conversazione che il ragazzo sembra intraprendere più con chi è dietro la macchina da presa, rispetto a chi è totalmente al di fuori. Eppure il film ci conduce dentro, immersi nei dolori di Winter Boy.
Nei gesti inconsulti di Lucas e nel suo cammino di guarigione che, nonostante non potrà mai sfuggire del tutto ai tormenti anche quotidiani, imparerà a esternarli, a renderli parte del suo mondo. A diventarne cittadino lui stesso. Un lutto che porta a un’auto-analisi, che toccherà il protagonista e la sua intera famiglia. Parole che possono restare impresse, come quelle cicatrici ai polsi da cui non si può scappare.
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