Questa intervista a Damiano e Fabio D’Innocenzo è pubblicata nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti del mondo dello spettacolo romano raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore.
Irriducibili, estremi quando s’incazzano — che sia per i David di Donatello 0 per il segnale di Dazn che salta, fa lo stesso — e quando si esaltano — per un oscuro film dell’underground anni Ottanta 0 per la foto di una ragazza in un cimitero monumentale.
Romani, romanisti, artisti, poeti, fotografi, registi, disegnatori, scrittori. Nati a Tor Bella Monaca, quartiere periferico a sud di Roma, residenti all’Esquilino, il cuore multietnico della città, quello dove “è più facile scomparire”. Trentacinque anni e tre film girati a Roma e dintorni – La terra dell’abbastanza, Favolacce, America Latina – una serie tv in preparazione per Sky, Dostoevskij, “che è come se l’avessimo girata a Roma”.
La critica si divide, loro aggregano. Intorno a Fabio e Damiano D’Innocenzo si sono creati gruppi, movimenti, alleanze: Alain Parroni, Simone Bozzelli, Trash Secco, Pietro Castellitto. Gli enfants terribles del cinema italiano under 40 appartengono tutti alla stessa crew.
Quando i D’Innocenzo parlano di Roma, alternandosi al telefono uno alla volta, è difficile interromperli. Quella con i gemelli non è una conversazione, ma un flusso di coscienza. Poetico. Visivo. Direbbero loro: “sporadico”.
La scomparsa come essenza
“Per me il centro di Roma è la stazione Termini. Termini è centro, è migliaia di persone. Persone come fantasmi. Termini suggerisce l’idea che a Roma tu possa scomparire. E più ti avvicini alla scomparsa, più hai a che fare con le caratteristiche della sua essenza. Roma ti leva le sovrastrutture”.
Damiano è il primo a prendere la parola: “Dev’essere che siamo nati a Roma, ma di spalle. Veniamo da Tor Bella Monaca: la Roma “città” non era un posto per noi. Era come se dovessimo guadagnarcela. Perché Roma non ti spetta di diritto. Quando prendevo l’autobus e arrivavo a Tiburtina mi sentivo l’imperatore della città. Roma mi tira fuori una grande onestà. A Roma non posso mentire: non me lo perdonerebbe. Qua mi sento libero. Di essere me stesso, anche la peggior versione di me stesso. Roma non ti chiama mai per nome”.
La periferia dei fratelli D’lnnocenzo, prima ancora di essere un punto preciso sulla cartina di Roma – Tor Bella Monaca. La più alta presenza di case popolari in Italia: 5.567 appartamenti su 6.753, due milioni di metri cubi di cemento, 14 piazze di spaccio — e uno stato d’animo. Che li segue ovunque. “Nel corso degli anni, tra uno sfratto e l’altro, abbiamo vissuto anche a Casal Bruciato, a Guidonia, a San Lorenzo, pure ai Parioli. Avevo preso in affitto insieme a una donna la casa del portiere, ci dividevamo le spese: al piano di sopra c’era Fiorella Mannoia che cantava. Dicono che a Roma viva bene chi ha i soldi: io credo che a Roma vivi bene se abiti nel quartiere che ti somiglia di più. Per questo ho scelto l’Esquilino. Dove abiti dice molto di come sei”.
D’Innocenzo, i vagabondi del Gra
La Capitale e il suo hinterland sono presenze costanti nei film della coppia: Ponte di Nona (La terra dell’abbastanza). Spinaceto
(Favolacce), Latina (America Latina). Lo spiega Fabio: “Quello che ci attrae di Roma. quando giriamo un film, sono le storture. Le
cose che ci somigliano: i quartieri fantasma. i complessi edilizi nati come truffe e mai finiti — il palazzo in cui abbiamo girato Favolacce era di quel tipo. Un lavoro di ricerca più complicato del dire: “Mi serve un ristorante ai Parioli”. Spesso vagabondiamo intorno al Raccordo Anulare. La Roma che mettiamo in. scena non è una città ma un apparato metafisico”. Da ragazzi se ne andavano a Stazione Termini a scattare foto di nascosto ai passanti. I soldi, in casa, erano pochi (il padre è pescatore, la famiglia lo seguiva nei lavori stagionali), ma l’interesse per l‘arte è sempre stato vivo. “Siamo nati poveri, le prime cose le abbiamo fatte in semplicità — riprende Damiano — e la semplicità consiste nel poterti muovere molto poco in una possibilità ristretta”.
Tutto ciò che potevamo guardare si trovava a pochi passi da noi, a portata di bus 0 di treno. L’unico mondo possibile era Roma. E ce ne siamo abbeverati. La stazione pareva un piccolo diorama del mondo: c’erano tutti gli esemplari possibili di esseri umani, era un universo”.
Da grandi, invece, amano perdersi per la città. “Ci piace girovagare. Ogni volta che ci serve una location per un film ci prendiamo una giornata per cercare posti: quando torniamo a casa, scopriamo di aver fotografato solo i particolari. I decoder, i santini alle pareti, le foto di famiglia. “Sono i dettagli effimeri quelli che raccontano il luogo”, dice Fabio. L’ultimo angolo di Roma “scoperto”? “Il cimitero del Verano (a due passi da Termini, ndr). Durante il Covid ci portai la mia compagna – racconta Damiano – Quel posto ha una grandissima vitalità. Amo camminare in mezzo a tutte quelle Vite. Mi sono innamorato follemente di una morta, Giacomina. Vidi la sua foto in bianco e nero, di una bellezza assoluta, occhi grandissimi. Era molto giovane. Aveva qualcosa di puro. E di crudo”.
Tradizione e periferia
La prima sceneggiatura a 21 anni (spedita avventurosamente a Martin Scorsese via MySpace. l’antenato di Facebook), l’esordio a 30 al festival di Berlino, due i padrini eccellenti (ma “padrino” e una parola che rifiutano): Matteo Garrone, conosciuto fuori da un ristorante, con il quale nel 2018 scrivono il soggetto di Dogman, e Paul Thomas Anderson, che il Sundance Institute mette loro accanto come “tutor” per la stesura di un western che deve ancora vedere la luce. “Ci sentiamo privilegiati, adesso, perché il nostro lavoro viene apprezzato e ci frutta del denaro. Dieci anni fa non succedeva. Fino a 28 anni non ho mai preso una lira dal cinema — dice Damiano – Ma io quell’incertezza non voglio lasciarla. Le mie ferite le voglio far fruttare, perché mi hanno formato. Roma ti da mille possibilità. Ma bisogna trattarla come una persona: non si deve chiudere con lei appena le cose ti vanno bene”.
C’é chi paragona il loro cinema, senza filtri né compromessi, a quello di Pier Paolo Pasolini. Ma Fabio non e d’accordo: “Dopo l’esordio ce l0 dicevano in tanti. Ma io di Pasolini ho visto solo Teorema e Salò), nient’altro. Non avendo mostri sacri posso vivere il cinema in maniera leggera. Sono sempre felice quando vedo qualcuno che sta girando un film: mentre preparavamo Favolacce avevamo un ufficio che era proprio davanti al palazzo in cui Nanni Moretti girava Tre piani. Ecco, quel cinema la ci sembrava anche più vero del nostro: la tradizione del nostro cinema i0 la riconosco, ma è come se fossi da un’altra parte. Non sono un fanatico. Non ho padrini. Il mio film preferito? L’impemtore di Roma di Nico D’Alessandria (storia della vita quotidiana di un giovane tossicodipendente romano dedito all’accattonaggio, ndr), in bianco e nero, senza cavalletto, girato insieme alla moglie, con un solo attore. Un film inopportuno, underground e meraviglioso. La dolce vita? Roma non è dolce. Forse nemmeno bella. Roma è sporadica”.
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