Cosa fareste se foste bloccati in un ascensore? A rispondere sono il catanzarese Francesco Colella (49 anni) e la toscana Amanda Campana (26 anni), premio RB Casting al miglior giovane interprete italiano per Suspicious Minds alla 21esima edizione di Alice nella città. Gli attori sono al centro del “thriller sentimentale” scritto e diretto da Emiliano Corapi, due coppie/generazioni a confronto che formano un quartetto insieme a Matteo Oscar Giuggioli e Thekla Reuten.
Un’indagine in cui non bisogna scoprire il colpevole, ma l’esistenza stessa del delitto. Giulia (Campana) e Fabrizio (Colella) rimangono chiusi tra le quattro mura di un ascensore, generando legittimi dubbi nei rispettivi partner: cosa può essere accaduto in quel luogo, lontano da occhi indiscreti?
Avete paura di rimanere bloccati in ascensore?
Francesco Colella: No, ma l’umanità “da ascensore” mi incuriosisce molto. C’è quel tipico silenzio che congela i corpi, creando disagio e sospetto.
Amanda Campana: Fino a qualche anno fa facevo fatica a prendere l’ascensore. Sono vagamente claustrofobica. Ora, però, vivo da sola e ho imparato che l’ascensore non deve per forza essere mio nemico, soprattutto se devo portare a casa le le buste della spesa. Nel film, però, la claustrofobia si sente. E questo nonostante non sia un horror.
Allora di cosa avete davvero paura?
A.C.: Facile, la morte. Avrei potuto dire una cosa più rassicurante, come i ragni. Ma la fine mia o dei miei cari è qualcosa con cui devo fare i conti. Sarà che me ne sono dovuta rendere particolarmente conto quest’anno. Ma so anche che, più o meno, è una paura che si può affrontare.
È più facile mettersi a nudo quando ci si trova alle strette, come tra le quattro mura di un ascensore?
F.C.: È l’occasione per avere uno scambio autentico. In Suspicious Minds c’è un uomo adulto che incontra una giovane donna, e la successiva crisi che l’evento innesca con i rispettivi partner. È un luogo sospeso, e in quella sospensione si genera il dubbio. È per questo che lo stesso regista, Emiliano Corapi, definisce la pellicola un thriller sentimentale.
A.C.: In un ascensore bloccato si perde il senso del tempo e dello spazio. Diventa quasi un palcoscenico, su cui non è detto che le persone si mettano a nudo e si rivelino per ciò che sono veramente. Anzi, è possibile addirittura che diventino qualcun altro.
Diventa impossibile, in quel caso, continuare a ignorare i propri problemi?
F.C.: Forse si può arrivare finalmente ad ammetterli a se stessi. Almeno ci si dovrebbe provare, anche perché non serve a nulla fuggire. Soprattutto se si vuole diventare persone migliori.
È più facile mentire agli altri o a se stessi?
F.C.: Si può passare la vita a mentire a se stessi, ma poi se ne pagano le conseguenze. Nei film, a teatro o in letteratura mi piacciono i personaggi che mentono a se stessi e a un certo punto devono confrontarsi con la verità. Lo trovo così umano. Ora sono in un’età in cui, se mento a me stesso, me ne accorgo. E lo vedo che non mi fa bene. Ma la vera forza è nell’ammissione delle proprie fragilità.
A.C.: Io sono cintura nera del mentire a me stessa. Peccato che poi sono la prima a non credere alle mie stesse bugie. Ho i piedi ben saldi a terra. Basta guardare il mio personaggio in Suspicious Minds. Giulia è convinta che con Daniele starà per sempre insieme, ma se lo pensassi io dopo un secondo mi direi: “Ma chi vuoi prendere in giro?”
Secondo voi, però, possono e devono esistere le “bugie bianche”?
F.C.: Capita a tutti di dirle. Magari per non ferire qualcuno. Ma come imperativo cerco di non dire nemmeno le bugie quando sono bianche. C’è sempre qualcosa di tossico nel mentire. Poi esistono persone che sono affabulatori nati. Loro mi piacciono tantissimo. Sono capaci di prendere anche solo uno stralcio di verità, arricchirlo e renderlo più bello del vero. La bugia, in fondo, è contigua all’immaginazione. Il più grande degli affabulatori era Federico Fellini. Moglie, amici, parenti, tutti dicevano che non faceva altro che mentire. Ma lo faceva in maniera meravigliosa.
A.C.: Le bugie bianche non hanno tutte lo stesso peso. A volte sono necessarie, quando non feriscono nessuno. Ad esempio, mi chiama mia madre dopo una brutta giornata e mi chiede come sto. Le rispondo “bene”, perché non ho voglia di preoccuparla. Invece mio nonno Rinaldo racconta talmente tante bugie che alla fine gli credi, come nel Big Fish di Tim Burton. Sai che ti sta mentendo, ma lo fa così bene che non te la senti di contestarlo. Sono così belle.
Pensate che Suspicious Minds metta a confronto le generazioni sull’amore, le relazioni e la coppia?
F.C.: I giovani del film vivono una sorta di cortocircuito. È una frattura profonda, che mette alla prova anche gli adulti. Quando si cresce, si diventa anche più permissivi. Nella storia Fabrizio, il mio personaggio, sembra avere un rapporto solido e una stabilità professionale. Ma l’incontro fortuito con una ragazza più giovane gli fa mettere in discussione la sua vita, la sua relazione con le donne e, soprattutto, se stesso. Gli anni, però, insegnano che se si è stati capaci di instaurare una relazione profonda, è possibile cadere e rialzarsi. La maturità che hanno Fabrizio e la moglie non è dovuta al loro rapporto in quanto tale, ma al tempo che hanno passato insieme.
A.C.: In parte possiamo dire che Suspicious Minds ha una componente generazionale. È abbastanza naturale che una coppia più adulta abbia gli strumenti per capirsi e “aggiustarsi”.
Come è stato lavorare con Matteo Oscar Giuggioli e Thekla Reuten?
F.C.: Abbiamo fatto diverse prove e il merito è stato di Emiliano, che ci ha permesso di conoscerci prima del set. Thekla, mia moglie nel film, è di un’empatia e una luminosità che ti travolgono. Non ho solo conosciuto Thekla, Amanda e Matteo, ma i loro mondi. Siamo diventati una comunità. Marco Ferreri, tra i miei registi preferiti, mentre girava Il Banchetto di Platone diceva: io non voglio sentire le battute degli attori, ma il sole che batte sui templi greci. Voleva che gli interpreti vivessero i personaggi ed è così che abbiamo tentato di fare anche noi.
A.C.: Non mi sarei potuta trovare meglio. In Matteo Oscar ho scoperto un grandissimo compagno, in Francesco un attore incredibile e in Thekla quell’alleata femminile di cui si ha bisogno. Sul set non avevamo età. Mi sono ritrovata nel mondo di Francesco e di Thekla come loro si sono potuti ritrovare nel mio. Non c’era divario generazionale.
Cosa vi augurate per il futuro?
F.C.: Di non dare nulla per scontato. Di incontrare personaggi che riescano a parlarmi ancora. Di venire perdonato quando farò promesse che già so non potrò mantenere. Sapermi rinnovare, che è poi il compito che mi do giorno dopo giorno. E fare sempre in modo che recitare sia la mia personale maniera di scoprire e leggere il mondo.
A.C.: Mi auguro di riuscire a vivere sempre ogni cosa che faccio nella maniera più leggera possibile. Non accettare di fare cose che potrebbero ferirmi e accettare invece ciò che non posso cambiare. Questo potrebbe rendermi più forte? Più aperta? Non posso ancora dirlo, ma so che voglio imparare a perdonare gli errori degli altri, sapendo che potrei commetterli anche io.
Francesco, reciti anche in Volare di Margherita Buy. Com’è stato vederla dirigere?
F.C.: È un’attrice straordinaria e questo lo sappiamo. La sorpresa è stata vederla così umana e allegra dietro alla macchina da presa. Nei fine settimana ci vedevamo anche se non dovevamo girare. Non ho mai riso così tanto come sul set di Volare, con Margherita che ci conduceva in un’opera a metà tra l’ironia e la malinconia della commedia all’italiana, e la fragilità dei personaggi alla Čechov.
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