“Il carcere di Nisida è un luogo particolare da sempre: l’isolamento su un’isola si sente ancora più forte, ma volevo si percepisse il contrasto tra la staticità della prigione e il progredire della vita, di pari passo con la crescita della protagonista”. Parola del regista Mario Vezza, il cui Desiré – in concorso ad Alice nella Città – racconta la detenzione e l’esperienza del carcere come luogo formativo visto dagli occhi della giovane protagonista omonima: una sedicenne intrappolata in un ambiente al quale è inesorabilmente costretta e dal quale è difficile prendere le distanze. Desiré è una ragazza volubile e fragile, vittima di un mondo che prova a padroneggiare, ma dal quale viene continuamente schiacciata. Ed è così che il luogo di contenzione per antonomasia – grazie alla sensibilità di chi ci lavora e grazie all’arte teatrale – può diventare ambiente di crescita e rinascita. Il primo vero inizio di una vita tutta nuova.
Il racconto di Desiré è un cerchio che si chiude. Nasce in mare, ed è nel mare che troverà poi la sua identità.
Sì, in effetti sì. La circolarità nasce dall’idea di far fare un percorso errante alla protagonista. Ai fini della struttura del film c’era bisogno di chiudere il cerchio, di mettere un punto alla sua introspezione, e l’ho voluto fare così, ricollegandomi all’inizio. Il tema del mare, poi, è molto delicato, e ci tenevo a metterlo al centro di tutto.
Le tematiche trattate però sono molteplici, dalla violenza alle dipendenze. A chi si rivolge il film?
Desiré nasce come opera prima, quindi l’idea di base l’obiettivo è quello di far arrivare anche attraverso l’autore un punto di vista ben preciso allo spettatore. Volevo raccontare la formazione identitaria di una giovane donna attraverso una serie di condizioni sociali e identitarie. Il discorso alla base di tutto poi, è proprio quello della formazione ed educazione.
Lei stesso ha partecipato a dei percorsi formativi in carcere.
È stata l’esperienza che più mi ha cambiato la vita. Il personaggio di Desiré nasce anche da lì.
Ci racconta il progetto del film?
Il progetto del film nasce cinque anni fa sotto forma di documentario, con piccole interviste fatte a dei giovani detenuti insieme al co-sceneggiatore Fabrizio Nardi. Abbiamo fatto dei percorsi educativi di teatro negli istituti penitenziari, e ci siamo resi conto che c’era un elemento sotteso tra le storie di questi ragazzi. Molti di loro erano uniti da un pessimismo per il futuro, non si prospettavano alcuna condizione di lì ai dieci anni successivi. Desiré è in questo senso una ragazza che non ha una vera e propria identità, vive le difficoltà in modo passivo e, come gli intervistati, non ha ben chiaro chi sia, cosa stia facendo lì. Da qui la scelta di trovare un’eroina che fosse un po’ ibrida. Volevo creare un aspetto di ricerca anche a livello visivo, oltre che nelle questioni trattate.
I detenuti intervistati erano perlopiù sfiduciati, dunque?
No, in realtà variava di persona in persona. I giovani nati in un sistema malavitoso si proiettano tutta la vita in quell’ambiente. Coloro che sono stati posti in situazioni difficili dalla vita invece manifestano una mancanza di strumenti personali ed educativi per potersi immaginare nel futuro.
È una caratteristica delle nuove generazioni?
È un dato di fatto. I ragazzi di oggi hanno poche aspirazioni, pochi ideali. E da qui l’idea del film: creare una storia di un personaggio nel corso della sua formazione, tramite una fotografia che la seguisse in un momento di radicale cambiamento.
Com’è avvenuta la scelta dei giovani attori del cast?
Siamo partiti dalla volontà di raccontare il territorio napoletano. Servivano attori che sapessero parlare il dialetto e che rappresentassero Napoli in maniera autentica. Abbiamo cercato di trovare dei ragazzi che potessero avere vissuto storie simili per dare al film una sua verità. Desiré è stata il personaggio più difficile da trovare. Volevo una ragazza per metà nigeriana, piccola di corporatura, e che parlasse napoletano. Con lei abbiamo fatto un tour de force, a partire dall’insegnarle a guidare il motorino fino a nuotare. È stata come una meta-formazione, che è ciò che mi auspicavo lavorando con i ragazzi.
Perché, come racconta anche la protagonista, il nome Desirée è scritto in maniera sbagliata?
È voluto. La volontà era quella di creare una sorta di strappo, di frattura, che fosse visibile. Delle volte c’è bisogno di simbolismo nel cinema, e in Desiré l’ho voluto inserire così. Volevo che questo nome scritto male per cause fortuite simboleggiasse le condizioni di una vita invivibile sotto tanti aspetti.
È l’epoca aurea dei drammi penitenziari, primo tra tutti Mare fuori. Si è ispirato alla serie?
Il progetto del nostro film nasce un po’ prima. Sono consapevole che siano due realtà molto simili, per il tema rappresentato e per la location. Noi, però, abbiamo cercato di instradarci in un percorso autonomo. Abbiamo tentato di raccontare con delicatezza il carcere di Nisida, la ricerca di identità di queste donne in via di formazione, codificandola in maniera solo nostra.
Desiré nasce e cresce nella malavita, ma l’esperienza del carcere la porta verso la rinascita. Alla base della sua esperienza negli istituti penitenziari, la redenzione è una conseguenza reale e possibile?
In alcuni casi avviene. La scelta di raccontare il riscatto nel mio cinema nasce proprio perché c’è una volontà personale ed autoriale di guardare il tutto da un punto di vista positivo. Conosco tantissime storie di ragazzi che, una volta forniti loro gli strumenti adatti, sono riusciti a riscattarsi e a rinascere. Io stesso sono cresciuto in un ambiente che mi avrebbe potuto deviare verso una strada diversa. La formazione e gli incontri giusti, però mi hanno edificato correttamente. Lo stesso può avvenire col carcere.
La pellicola non ha una fine netta e sembra preannunciare una nuova fase della vita di Desiré. Tutto finisce – così come era iniziato – con l’acqua.
I suoi problemi rimangono, vanno ancora affrontati, ma è come se lei riuscisse finalmente a trovare una forma identitaria, peraltro grazie al contatto fisico con l’acqua. A sedici anni non si può dire di sapere o di conoscere qualcosa completamente, perciò anche la fine della pellicola doveva rappresentare la giovane età della protagonista. Come se fosse l’inizio di un nuovo percorso. Stavolta però intrapreso in autonomia.
Cosa si auspica per il film?
Mi piacerebbe riuscire a farlo arrivare a un pubblico giovane che ne percepisca l’onestà. I film devono avere una natura collettiva, devono raccontare chi li guarda. Devono essere condivisi e apprezzati, anche se solo da una fetta di pubblico. Non mi interessa l’essere popolare, l’importante è che si riesca a diffondere un’idea di verità che non possa essere smentita.
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