Diabolik è tornato, questa volta per il capitolo conclusivo della trilogia firmata Manetti bros. Un cinecomic ambizioso per il panorama italiano e basato su un’opera di grande storia editoriale come la saga fumettistica di Diabolik, ideata dalle sorelle Angela e Luciana Giussani.
Un fumetto pensato per i lettori pendolari – due vignette per pagina, formato tascabile – dall’impianto teatrale, classico, affascinante e rassicurante nella sua prevedibilità, nonostante i mille volti dei protagonisti: un’anima difficile da rievocare in una trilogia per il cinema di sei ore totali.
Pur riuscendo a coglierne la teatralità, i fratelli Manetti sono sembrati anche nei primi capitoli in difficoltà nel metterla in scena. E questo film finale, ispirato all’albo dedicato alle origini misteriose del ladro di Clerville, persegue sulla stessa linea con un copione didascalico e battute spesso ridondanti, che non rendono giustizia ai “volti noti” del cast Valerio Mastandrea (che interpreta l’ispettore Ginko), Miriam Leone (Eva Kant) e Monica Bellucci (la duchessa Altea di Vallenberg) con quel suo “strano” accento, come lo ha definito anche lei in conferenza stampa.
Diabolik e Ginko, faccia a faccia
In questo terzo capitolo, Diabolik ed Eva Kant si preparano a un colpo che, però, non va per il verso giusto. Proprio mentre stanno cercando di rubare delle preziose monete, una banda di rapinatori fa irruzione nella stessa banca, intascando un notevole bottino oltre ai preziosi adocchiati proprio dalla coppia di ladri. Dopo aver condotto una serie di indagini, Diabolik e l’ispettore Ginko cadono ostaggi di questo gruppo criminale – che tutto sembra tranne che un gruppo organizzato (nonostante i dialoghi sostengano il contrario).
In quei momenti di prigionia, Ginko e Diabolik finalmente si incontrano, faccia a faccia. Ed è lì che Mastandrea recita la domanda delle domande al ladro interpretato da Giacomo Gianniotti: “Diabolik, chi sei?”
Troppo fumetto, ma poco fumetto
Al netto di qualche sequenza virtuosa, come un inseguimento a tutta velocità per le strade di una Clerville bolognese, il film è un adattamento mediocre, con un ritmo molto lento che impiega troppo tempo per arrivare al cuore della storia. E la regia – fin troppo ricca di trovate, inquadrature e dettagli – non riesce a salvare un testo bidimensionale, che fallisce nel restituire una qualche sorta di profondità ai personaggi.
Un peccato, poiché il film – e la trilogia in generale – aveva tutte le premesse per essere un blockbuster di un certo rilievo, con un cast di grande richiamo e una proprietà intellettuale tra le più importanti nella letteratura a fumetti italiana.
La ricostruzione degli anni Settanta, tra macchine, costumi, colore dell’immagine e colonne sonore (curate da Aldo e Pivio De Scalzi) convincono, in una visione certamente gradevole e in un prodotto realizzato – e questo si vede – da grandi appassionati che hanno a cuore il fumetto delle sorelle Giussani. Ma questo non basta per fare un buon film, anzi: la grande fedeltà finisce per tarpare le ali a Diabolik, scimmiottando i ritmi dell’opera originale senza amalgamarla con il linguaggio del cinema costruendo un’estetica unica ed eclettica (come ha fatto invece molto bene Edgar Wright nel suo Scott Pilgrim vs. the World).
Questa trilogia, ora giunta al termine, rischia di passare inosservata, senza lasciare tracce. Un peccato, se perfino i coltelli e le sferzate, quando a lanciarle è Diabolik, lasciano dietro di sé almeno uno “SWIISSS”.
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