La chimera di Alice Rohrwacher, che esce oggi nei cinema, è un film ctonio. Parolona difficile, eh? Viene dal greco “χϑών -ονός”, che vuol dire “terra”. Significa “sotterraneo”. Le “divinità ctonie” dei greci erano quelle legate alla vita sepolta, come Ade. Nel film – che fin dal titolo allude alla mitologia greca, la chimera era il mostro trimembre ucciso da Bellerofonte – diverse scene si svolgono sottoterra. Del resto, uscendo dalla mitologia e venendo a cose più terrene, si parla di “tombaroli”: quegli archeologi illegali, chiamiamoli così, che per decenni hanno saccheggiato le tombe etrusche che si trovano un po’ dovunque fra il Lazio e la Toscana. Arthur, il protagonista, è una sorta di rabdomante: ha un fiuto infallibile nell’individuare i pertugi che portano ai sepolcri, nell’infilarsi sottoterra e uscirne con reperti più o meno preziosi. Ma la natura ctonia del film è diffusa ovunque nella narrazione. Arthur è infatti alla ricerca (vana? Forse sì, forse no) di Beniamina, la ragazza che amava e che tutti danno per morta. È lei la fanciulla bionda che vediamo nella primissima inquadratura. Solo alla fine del film si comprende il significato dell’inizio. Sarà proprio Beniamina a richiamare Arthur dall’oscurità sotterranea, rovesciando l’antico mito di Orfeo ed Euridice. L’apparizione finale di una fanciulla bionda che “chiama” il protagonista verso una dimensione altra potrebbe far pensare al finale di La dolce vita di Federico Fellini, la famosa scena in cui tutti vanno sulla riva del mare a vedere un mostro spiaggiato e Marcello Mastroianni vede la giovanissima Valeria Ciangottini sulla spiaggia. Sono separati da un corso d’acqua: lei sembra chiamarlo, ma lui non sente, e alla fine non risponde al richiamo.
È uno dei finali più belli ed enigmatici di tutta la storia del cinema.
La similitudine felliniana è probabilmente tirata per i capelli, però c’è in La chimera un altro momento in cui la citazione è esplicita: i tombaroli entrano in un sepolcro e, facendo entrare la luce e l’aria, rovinano gli affreschi sulle pareti, che pian piano si dissolvono e spariscono. Non si può non pensare alla scena di Roma in cui ci si addentra nei lavori per la metropolitana, e succede la stessa cosa: l’irruzione della modernità (vogliamo chiamarla profanazione?) provoca la distruzione di qualcosa di antico che era rimasto, sottoterra, come incapsulato in un tempo immobile.
Fellini. È stato di gran lunga l’artista più importante del nostro cinema. Lo dimostrano anche questi omaggi. E Alice Rohrwacher è in ottima compagnia. Il più felliniano di tutti è ovviamente Paolo Sorrentino. Anzi, forse è lui che ha dato il via a questa tendenza: quando vedemmo La grande bellezza fioccarono i paragoni con La dolce vita, ed effettivamente i rimandi erano parecchi (a cominciare dal mostro marino di cui parla, in un dialogo, il personaggio interpretato da Sabrina Ferilli). Ma anche in quel caso era Roma, a guardar bene, il film più rimasticato: Roma è un capolavoro abbastanza dimenticato, a differenza di Amarcord, La dolce vita o Otto e mezzo, ma come una divinità ctonia (ci risiamo!) ogni tanto fa capolino, come a ricordarci un passato sepolto ma essenziale.
Come non pensare, ad esempio, alla strepitosa sequenza della sfilata di moda ecclesiastica, della quale i vari Papi di Sorrentino sembrano un’ipertrofia? Anni dopo, Sorrentino ha costruito il finale di È stata la mano di Dio come una consapevole citazione del finale di I vitelloni: il protagonista parte da Napoli in treno per andare a conquistare Roma, inseguendo il sogno del cinema, esattamente come Moraldo abbandonava il paesello senza sapere nemmeno perché.
Nanni Moretti, invece, aveva cominciato a citare Fellini fin da Ecce Bombo: nel finale uno dei “vitelloni” del film, osservando alcuni vecchietti che ballano in una balera popolare, mormora più o meno “che bello, sembra Fellini”. Del resto Moretti non ha mai negato di considerare Fellini un gigante. La vulgata voleva che già all’opera terza – Sogni d’oro – Nanni avesse fatto il suo Otto e mezzo, ma ripensandoci i due film sono molto diversi e la similitudine era dettata da pigrizia critica.
È invece lecito individuare in Il sol dell’avvenire una citazione di La dolce vita (è il film che guardano i due ragazzi al cinema) e un omaggio a Otto e mezzo nel carosello finale, quando tutti i personaggi del cinema di Moretti sfilano per i Fori Imperiali. Secondo noi, c’è un altro momento felliniano nell’ultimo film di Moretti, ed è l’inizio: quegli operai che si calano dai muraglioni del Lungotevere per scrivere a enormi caratteri il titolo del film, seduti su delle piccole piattaforme pensili, ricordano da vicino i due pittori di Cinecittà che, su piattaforme identiche, dipingono un meraviglioso cielo sereno nel Teatro 5.
È una scena di Intervista, una delle più strepitose di tutto il cinema di Fellini: uno degli operai prima fischietta, poi si rivolge all’altro: “Ahò, a Ce’!”. L’altro chiede: “Che voi?”, e il primo risponde: “Vattela a pia’ ‘nder culo”. Poco dopo, smettendo di dipingere, sempre il primo operaio dice: “A Ce, no, stavo a pensa’ ‘na cosa”. “Che cosa?”. “Perché nun te la vai a pia’ ‘nder culo?”. Nel film di Moretti un simile dialogo ovviamente non c’è, ma il gesto di quel commando di pittori che scrive una frase comunista proprio all’altezza di Castel Sant’Angelo, a pochi metri dal Vaticano, è molto potente.
Rohrwacher, Sorrentino, Moretti. È sufficiente per individuare un trend (ci scansiamo appena in tempo per evitare il ceffone di Nanni: “Ma come paaarla!”)? Vogliamo aggiungere Garrone, che con Pinocchio ha portato sullo schermo un libro che Fellini ha sempre sognato? Qui il paragone è forzato, anche perché i progetti che Fellini confessava alla stampa (oltre a Pinocchio, l’Orlando furioso e il famoso film sui miti greci, vuoi vedere che Alice Rohrwacher ci ha pensato?) erano spesso divertenti bugie per depistare i cronisti. Però Roberto Benigni, Geppetto per Garrone e fanciullino pascoliano per Fellini in La voce della luna, è comunque un link.
Non avete ancora visto Finalmente l’alba di Saverio Costanzo, che era in concorso a Venezia ma uscirà solo a dicembre. Beh, quello è un film tutto costruito su citazioni: inizia con una mimesi di Roma città aperta e di altri film resistenziali (quindi Rossellini), poi diventa Bellissima raccontando di una madre che spinge la figlia su un set cinematografico (quindi Visconti), poi mette in scena la lavorazione di un peplum che sembra Ben-Hur o Cleopatra (quindi la Hollywood sul Tevere, e anche La dolce vita) e finisce in un party perverso e pericoloso che ricorda non poco Le notti di Cabiria (quindi, alla fine, Fellini!).
Fellini è dovunque. È il passato ctonio del nostro cinema che riemerge di continuo. Da un lato è bello che i nostri cineasti non l’abbiano dimenticato: nel cinema la memoria è importante. Dall’altro, citare Fellini è sempre un rischio e non siamo così sicuri che tutti i cineasti citati l’abbiano davvero fatta franca. Un conto è la citazione affettuosa e pertinente: e diremmo che il finale di Il sol dell’avvenire, dove veramente Moretti fa i conti con i personaggi che ha creato negli anni proprio come l’immaginario regista Guido Anselmi di Otto e mezzo, rientra in questa categoria.
Altra cosa sono i “fellinismi”, una delle cose più arrischiate che un regista possa azzardare. Ogni tanto ci sovviene il pensiero che i cineasti di oggi dovrebbero rischiare di più, individuare strade nuove: prendere da Fellini la prodigiosa capacità di modellare il reale sulla propria fantasia, piuttosto che i “fellinismi” già belli e pronti. Comunque, sempre meglio citare Fellini piuttosto che qualche scalzacani. Come diceva Woody Allen, un altro che era ossessionato dal riminese, quando gli chiedevano se si sentisse Dio: “Beh, devo pur prendere qualcuno per modello”.
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