Una foto dei Beatles in bianco e nero, una matrioska di John Lennon, l’antologia dei Fab Four. “Beatlesiana?”. “In realtà lo è Nicola (Giuliano, ndr). Abbiamo condiviso per anni questo ufficio e ha finito per contagiarmi. Adesso dovremmo fare la spartizione dei beni”. Inizia così il nostro incontro con Francesca Cima, fondatrice insieme a Giuliano e Carlotta Calori della casa di produzione cinematografica Indigo Film. Fresca di un David di Donatello per il miglior documentario con Il Cerchio di Sophie Chiarello – di cui campeggia un poster all’entrata della sede accanto a quello di The Bad Guy, altro titolo di recente (ed enorme) successo – Cima è stata inserita da The Hollywood Reporter tra le 40 donne più più influenti del cinema a livello mondiale. “Ovviamente sono contenta di essere in quella lista”, confida. “Ma proprio non direi che siamo in una situazione in cui le cose stanno migliorando, soprattutto in Italia”.
La sede della Indigo, piena di libri e locandine dei progetti prodotti nel corso degli anni – ma anche di vari premi, compreso l’Oscar e i Bafta vinti per La grande bellezza – è un enorme appartamento circolare il cui cuore è rappresentato da una cucina. Un luogo in cui ritrovarsi (“una volta a settimana facciamo arrivare una grande spesa per tutti”), cucinare insieme – il menù del giorno prevedeva patate al forno – e sentirsi parte di una famiglia. “La Indigo Film è il mio orgoglio, di Nicola e di Carlotta. Abbiamo costruito questo posto in cui tante persone amano lavorare. E questo mi sembra già un grande obiettivo”, racconta Cima.
Un luogo pieno di giovani – il 70% donne – impegnati in settori differenti che incontriamo mentre passeggiamo con Cima nei corridoi della Indigo, tra stanze degli sceneggiatori piene di schizzi sulle lavagne e sale montaggio. E dove ci siamo anche imbattuti in una riunione di Giuseppe Stasi e Giancarlo Fontana a lavoro sulla seconda stagione di The Bad Guy.
È stata inserita nella lista di THR delle 40 donne più influenti del cinema nel mondo. Oltre all’orgoglio, crede ci sia ancora bisogno di questa divisione o siamo un po’ stanche di essere l’eccezione?
È una domanda molto complessa. Si è passati dall’avvilimento del passato a un po’ di entusiasmo immotivato con un modello di quote garantite perché c’è ancora tantissimo da fare a livello di società. Ovviamente sono contenta di essere in quella lista. Però ci sono tantissime donne, anche più importanti di me, che occupano ruoli rilevanti nell’audiovisivo italiano. Ma proprio non direi che siamo in una situazione in cui le cose stanno migliorando, soprattutto in Italia. Lo devo ammettere, perché io stessa sono stata per quasi dieci anni presidente dei produttori e ne ho di bei racconti da fare (ride, ndr). È un problema culturale, di possibilità, di accesso e anche di modelli culturali per cui le donne difficilmente si immaginano in alcuni ruoli.
Un esempio?
Quello della musica è forse un luogo culturale anche più antico rispetto al nostro. Se ci pensiamo non ci sono molte compositrici. Credo ci siano tantissime donne che frequentano e si diplomano al conservatorio, ma pochissime si immaginano direttrici d’orchestra o compositrici. Viviamo in un momento di boom delle produzioni e quindi di grande richiesta professionale di tutti i settori. Di compositrici di colonne sonore ce ne sono forse due. Bisogna farsi una domanda su questo: c’è un problema culturale o no? Perché evidentemente le donne non si immaginano in certi ruoli e gli altri non le immaginano in certi ruoli.
Da Cannes siamo tornati a mani vuote. C’è chi si indigna e chi dice che dovremmo smettere di cercare l’appropriazione oltralpe. La sua opinione?
C’è una giuria, come sempre discrezionale. Io non andrei né sull’una né sull’altra. La cosa che contraddistingue da sempre Cannes e il sistema francese è l’orgoglio che hanno per l’espressione culturale e per l’identità culturale stessa. La cosa che mi preoccupa di più in questo momento dell’Italia è che non si sta ragionando su questo, soprattutto in prospettiva, e si stanno invece alimentando inutili faide di tipo etnico-culturale mentre stiamo perdendo l’identità culturale. Non facciamo altro che parlare male di quello che facciamo, di dire che non lo sappiamo fare e penso che stia crescendo una generazione di ragazzi – io ho due figli e lo vedo proprio in modo fisico – che non ha nessuna identificazione identitaria, culturale, sociale con il proprio Paese. E infatti i migliori se ne stanno andando. È successo qualcosa di profondo, e sarà un problema.
In che modo?
Appartengo alla generazione dei boomer. Siamo tantissimi e quindi adesso il problema non si avverte. Quando noi saremo più anziani, non so chi ci sarà in Italia perché per i ragazzi che abbiamo formato, quelli su cui lo Stato ha investito moltissimo, la massima ambizione è andare via. Non si riconoscono in un Paese così e non c’è nessun progetto su di loro. In questo vedo la grande differenza con gli altri paesi molto fieri di tutto ciò che esprimono. Ma non solo nel cinema, anche nella musica, nell’arte, nella cultura, nella manifestazione del loro passato. Qui non c’è lo stesso orgoglio.
Due anni fa Pierfrancesco Favino dal palco dei David aveva detto che bisognerebbe far studiare il cinema nelle scuole…
Questo un po’ avviene già. Mi sono occupata tanto di normativa e di legislazione ed ero presidente dei produttori quando è stata varata la legge Franceschini. Favino fa riferimento a una cosa che già c’è ed è prevista dalla legge. Nel senso che nella legge Franceschini ci sono delle risorse ingenti per favorire l’educazione del cinema e dell’immagine nella scuola. Cosa che, ad esempio, in Francia c’è già da tantissimi anni. Anche qui: è una riforma a metà, perché mentre in Francia studiano la storia del cinema come studiano quella della letteratura, da noi i progetti sono un po’ eterogenei. Non c’è l’idea di pensare che il cinema sia un fondamento culturale del Paese. Questo è il problema: è qualcosa di effimero tranne richiamarsi sempre al nostro passato glorioso con il Neorealismo.
È un problema anche di comunicazione?
Noi ne siamo un esempio. Negli ultimi venti e trent’anni abbiamo espresso un cinema anche a livello industriale molto vivace e creato realtà importanti. Le case di produzione sono diventate delle piccole factory di idee, ma non lo stiamo raccontando. La cosa incredibile è che, mentre quando ho cominciato io tutti avevano abbastanza chiaro cosa facesse un produttore, oggi quando vado a fare i master dei corsi a vari livelli nelle scuole mi chiedono: “ma cosa fa un produttore?”. Manca proprio l’abc del settore. E sono sicura che in Francia questo non accade perché hanno talmente un orgoglio di quello che non solo hanno prodotto nel passato ma che stanno producendo in questo momento che farebbero di tutto per salvaguardare l’industria. Questo è un investimento che fai sul futuro. Tornando alla provocazione di Favino, in realtà adesso ci sono gli strumenti per insegnare il cinema nelle scuole, ma vengono utilizzati per progetti di varia natura e non anche di affezione col proprio patrimonio culturale e industriale soprattutto degli ultimi anni. Tanto è vero che i ragazzi che oggi vedono tantissimi film e serie tv ne vedono pochissime di italiane. C’è qualcosa che non va perché bisogna lavorare sugli spettatori di domani però studiando anche il modo di raccontare.
I suoi figli in questo la aiutano? Tramite loro si rende conto di qual è il termometro della situazione?
Sì, assolutamente.
E cosa le hanno detto di The Bad Guy?
Devo dire la verità: The Bad Guy è una serie abbastanza trasversale che ha incontrato l’interesse e la soddisfazione di un po’ di tutti gli spettatori, compresi i più giovani. Ma per non parlare solo delle cose che abbiamo prodotto noi, il discorso è un po’ più generale. Il pubblico che va a vedere i film – e questo si vede anche dai risultati della sala cinematografica – è sempre un po’ lo stesso. È difficile creare un pubblico di ragazzi che vada a vedere i film italiani, se non alcune cose molto più legate al mondo dell’infanzia.
Ma questo secondo lei perché chi fa cinema tende a scrivere storie sempre per lo stesso pubblico?
Penso che abbiamo superato questo problema perché vedo che anche le serie che vanno tantissimo e che parlano dei ragazzi non le vedono solo i giovani o viceversa. C’è un discorso di qualità, un discorso più profondo. Penso alla musica – vista sempre con gli occhi dei miei figli – che è riuscita a fare quello che noi nel cinema non siamo riusciti a fare. I ragazzi più giovani ascoltano tantissima musica italiana in cui si riconoscono sia come fruitori sia come possibili musicisti del domani. L’industria discografica italiana è rinata da questo punto di vista grazie anche allo streaming.
E torniamo a un problema di contenuto, quindi?
Non è tanto la proposta. È che per una serie di circostanze, di artisti, di fenomeni che sono accaduti – tra cui metto anche il festival di Sanremo – i ragazzi oggi non si vergognano più di ascoltare la musica italiana come dieci anni fa. Nel cinema questo processo non c’è ancora stato e quindi non è un discorso di proposta, ma di immagine, di comunicazione. Non si lavora abbastanza su questo. Ho sempre visto il festival di Sanremo e il più grande dispiacere è che non si parla mai di cinema. C’è qualche promozione di serie ma il cinema non è pervenuto. È come se non fosse percepito da chi lo utilizza. Ed è stranissimo perché mai come oggi abbiamo tantissimi spettatori, anche giovani. È come se non cogliessimo una grande domanda di prodotto e non riuscissimo a far comunicare domanda e offerta. E questa è la cosa peggiore che può capitare.
Si sta facendo un gran parlare dell’intelligenza artificiale applicata anche alle sceneggiature. Qualcuno dall’altra parte del mondo ci sta cominciando a pensare. Lei che idea si è fatta?
Sicuramente questo tema non riguarderà solo il cinema, vedremo come affrontarlo. Potrà essere utilizzato, mi auguro, per un certo tipo di prodotto medio. Penso che fanno benissimo gli americani, che hanno una forte identità e un forte senso di salvaguardia per l’industria, a cercare di mettere dei freni perché c’è un discorso anche banalmente di posti di lavoro. Sinceramente non la sento ancora come una minaccia. Sarà che nel mio lavoro le idee e i processi creativi nascono dagli incontri, dal parlare con i nostri autori, dalla lettura di un articolo, dal confronto e dalle relazioni. Non riesco a capire e a immaginare un processo diverso. Mi verrebbe da dire che con l’intelligenza artificiale sarebbe una replica all’infinito delle stesse cose. Invece il cinema ha saputo sempre innovarsi grazie alla diversità.
Ne è un esempio The Bad Guy?
È una serie che rispetta moltissimo l’identità di chi l’ha creata a cominciare dai due registi, Giuseppe Stasi e Giancarlo Fontana, con cui avevamo già fatto due film (Metti la nonna in freezer e Bentornato Presidente, ndr). E quindi nasce da una relazione, da un gruppo di persone che sono interessate a lavorare insieme. Se devo marcare un po’ la nostra modalità di casa di produzione, abbiamo sempre operato in questo modo. Tutti i film che abbiamo fatto con Paolo Sorrentino ma anche altre cose, anche seriali, penso siano sempre state sottolineate dall’identità di chi le aveva proposte e portate avanti. A cominciare dalla nostra prima serie, Una mamma imperfetta. Credo abbia raccontato il mondo femminile in modo innovativo e che rispecchi molto bene la personalità di chi l’ha creata, Ivan Cotroneo. La nostra è una casa di produzione di relazioni e di talenti e cerchiamo di rispettare la loro identità. Quindi se uno ha visto i film precedenti di Giancarlo e Giuseppe, in The Bad Guy ha ritrovato un po’ lo stesso gusto e vivacità aiutati dalla scrittura altrettanto brillante di chi li ha accompagnati, Ludovica Rampoldi e Davide Serino. È un discorso di mantenimento, di qualità. La qualità che, se devo un po’ banalizzare, ripaga sempre.
Dai tempi d Darryl Zanuck, su cui ha scritto la tesi di laurea, ad oggi crede che la figura del produttore sia cambiata?
Zanuck in realtà era anche uno sceneggiatore. Secondo me lui era quello che oggi viene definito showrunner. Un uomo integrato in una casa di produzione: non era solo il produttore, ma il produttore creativo dentro la Warner Bros. Un sistema totalmente diverso che è stato messo in ginocchio dalla sentenza Paramount. Gli altri paesi, soprattutto quelli più vivaci economicamente come gli Stati Uniti e la Francia, in realtà sono sistemi molto regolati e se dovessi dire cosa manca all’industria italiana in questo momento sono un po’ di regole. Il produttore secondo me non ha perso il suo ruolo e la sua funzione. Anche noi abbiamo avuto dei produttori meravigliosi.
Chi?
Franco Cristaldi di cui mi piace sempre riferire un motto: “Non si deve produrre ciò che si vende, ma vendere ciò che si produce”. Significa che tu non devi fare quello che sai già che verrà venduto ma dovresti fare quello che ti piace e poi provare a venderlo, dovresti stimolare. Franco Cristaldi è stato forse il più grande produttore creativo che abbiamo avuto in quegli anni lì. Noi abbiamo cercato di essere una pallida imitazione. Ci sono stati dei produttori, quelli che hanno preceduto il nostro arrivo come Domenico Procacci e Angelo Barbagallo, che penso abbiano scelto i progetti cercando sempre di vendere un po’ quello che a loro piaceva. Mi piacerebbe che molti ragazzi considerino il produttore come il loro lavoro futuro perché è bellissimo e copre un po’ tutto l’arco creativo, dall’idea all’arrivo del film al pubblico.
C’è una realtà produttiva alla quale guarda con ammirazione? Penso al lavoro che in questi anni ha fatto A24 in America, che produce e distribuisce e che in una manciata di anni è arrivata agli Oscar.
Non possiamo paragonarci agli Stati Uniti, che hanno un sistema molto più articolato. Hanno conquistato il mondo con il loro immaginario. È proprio questo che non si è capito, la forza che ha il cinema inteso come racconto – e ovviamente adesso anche le serie – di conquistare anche le platee di altri paesi. Loro l’hanno capito subito questo, negli anni Dieci e Venti, e non hanno fatto altro che insistere su questo. Adesso appunto c’è A24, prima c’è stato Weinstein – che adesso è innominabile però sul cinema ha fatto tantissimo – e ancor prima ce ne sono stati altri.
Un esempio?
Penso al produttore di Gravity e Harry Potter, David Heyman, che ha fatto una cosa incredibile. È riuscito a fare una saga con Harry Potter mantenendo un’identità molto europea. Ha unito la potenza di fuoco economica di una major come la Warner Bros. a un sistema creativo totalmente europeo, ereditato dalla tradizione anglosassone creando una specie di fabbrica di Leonardo da Vinci. Se si va al museo di Harry Potter vicino a Londra, ci si rende conto di cosa sia stato tutto quel processo industriale lì con i migliori artigiani, grafici, costumisti che avevano studiato profondamente l’immaginario inglese, irlandese e scozzese. Mi sarebbe piaciuto realizzare un modello così. Soprattutto avrei conquistato l’ammirazione dei miei figli in modo eterno (ride, ndr).
Il Covid ha finito per accelerare un processo già avviato. La Indigo come hai reagito a questa rivoluzione?
Come tutti. Non credo che siamo diversi dagli altri. Con il Covid è accaduto quello che già era in atto. Però c’erano dei resistenti in giro per l’Italia: quelli che non avevano mai visto un film o una serie, quelli che non guardavano nulla sulle piattaforme o in tv. Conquistati tutti. Poi ovviamente ci sarà un assestamento anche a livello di numeri e di ore possibili di visione che consente la vita umana (ride, ndr). Adesso ne stanno beneficiando i concerti e tutto lo spettacolo dal vivo, che era stato più penalizzato dal Covid. Ciò detto penso che non si tornerà più indietro. Perché una volta entrati nel meccanismo della visione, credo che la produzione di serie e di cinema magari subirà una piccola flessione rispetto al periodo della pandemia, però manterrà altissimi livelli numerici ed economici. Insomma il futuro io lo vedo positivo. È un’occasione da cogliere e dobbiamo coglierla mettendo insieme le migliori forze ma soprattutto puntando alla qualità e non solo sulla quantità. Perché non abbiamo gli strumenti per puntare solo sulla quantità. Gli altri lo fanno in modo egregio perché hanno risorse infinite. La qualità poi il pubblico te la riconosce, l’accoglie sempre, anche in forme diverse.
Sono passati dieci anni da La grande bellezza. Quale crede sia l’eredità di quel film, anche a livello produttivo?
Ha fatto scuola con l’idea che possiamo farcela. Ha fatto scuola perché abbiamo dimostrato che non siamo inferiori ad altre cinematografie. Che è un po’ il vizio dell’Italia, quello sempre di commiserarsi, piangersi addosso, criticare tantissimo. Purtroppo siamo un paese di forte impronta moralistica di origine cattolica, per cui il successo – anche economico – viene condannato. Non è un caso che i sistemi industriali più forti traggano origine da tradizioni più calviniste. Perché l’idea di fare successo e di farcela non è visto necessariamente come un peccato. Da questa cosa ci dobbiamo affrancare, soprattutto da questo sport nazionale di parlare sempre male. Questo anche a livello di stampa. È come quello che accade nel calcio: sono tutti allenatori e tutti i critici cinematografici. Quel film è frutto di un percorso fatto con un autore. La cosa che dovrebbe insegnare è che le cose non arrivano subito ma grazie a un percorso, a una conoscenza reciproca. Oggi invece c’è un po’ l’idea di bruciare le tappe, di fare in fretta.
In cosa lo nota?
I ragazzi escono dalle scuole di cinema pensando di lavorare subito visto che c’è molta richiesta di lavoro magari non pensando a ciò che si ha veramente voglia di raccontare. Fare un film dovrebbe essere frutto anche di uno studio, di un percorso, di revisione di sceneggiature, di capire bene quando un’opera è pronta per essere girata. Penso che devi aspettare un po’ l’esito di un film prima di pensare a un altro. Adesso c’è un po’ quest’idea che va bene tutto. La cosa che ho apprezzato tantissimo del vincitore del Davide Donatello di quest’anno (Le otto montagne, ndr) è il lavoro che hanno fatto i due registi (Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, ndr) sulla materia narrativa che non era per niente semplice. Hanno anche dedicato molto tempo allo studio del territorio. Questa cosa qua si vede e penso che la gente lo capisca e gliel’abbia riconosciuto. Fermo restando che tutti i film candidati erano meritevoli.
Il tempo è il vero lusso oggi?
Sì, penso sia la cosa più preziosa. Il tempo da dare a un regista – soprattutto esordiente – per girare, preparare, scrivere e anche un po’ per pensare a cosa raccontare. Oggi siamo tutti un po’ dentro un frullatore e quindi abbiamo anche poco tempo per parlarci, per confrontarci con gli autori. Ci sono delle ottime occasioni per farlo. Sono molto affezionata al premio Solinas perché è un modo per far entrare anche molti talenti nuovi e Anna Maria Granatello fa un grande lavoro. Poi passare qualche giorno alla Maddalena diventa anche un bel confronto tra autori, produttori, registi.
Indigo ha acquisito i diritti di The Echo Chamber, l’ultima sceneggiatura di Bernardo Bertolucci. A che punto siete?
Non posso dire molto. È un progetto al quale stavamo lavorando, scritto da Ludovica Rampoldi e Ilaria Bernardini insieme a Bertolucci. Anche qui: forse ci vuole un giusto tempo di distacco dall’autore. Abbiamo tantissimi progetti. Il nostro lavoro è cambiato perché mentre prima, che eravamo molti di meno, facevamo un po’ quello che potevamo permetterci di fare – due o tre progetti l’anno – adesso ne abbiamo molti in sviluppo. Non è detto che tutti partano in tempi brevi. Secondo me, però, c’è un tempo per tutte le cose. L’anno scorso abbiamo fatto una serie, Corpo Libero, con Paramount+ e Rai, a cui stavamo lavorando da anni. E guarda caso è uscita quando è emerso lo scandalo della ritmica. Cosa vuol dire? Non potevamo immaginare questa coincidenza, ma evidentemente era matura in quel momento lì. È un errore abbandonare le cose, bisogna coltivarle. Un po’ come un orto in cui devi avere tutto, perché altrimenti il terreno si consuma. Non puoi puntare solo su una tipologia di progetti. Noi facciamo tutto. Abbiamo vinto il Davide di Donatello con Il cerchio di Sophie Chiarello, che a proposito di tempo di realizzazione ci ha portato a seguire un’unica classe per cinque anni. Non c’era un’idea precisa ma era bello il progetto ed era bello seguire la regista.
È un modus operandi che replicate?
Su molti progetti stiamo lavorando con tanti autori, rispettando i loro tempi. In questo momento credo che la cosa che più mi affascina, oltre al discorso del tempo, è quello degli incroci tra varie discipline. Se uno osserva gli altri paesi, diciamo quelli evoluti dal punto di vista dell’industria cinematografica, c’è un continuo scambio tra letteratura, teatro, cinema e musica. Noi abbiamo tutto diviso. Soprattutto con il post-Covid la gente ha riscoperto moltissimo lo spettacolo dal vivo. Penso ci siano dei talenti nel teatro straordinari, sia a livello di drammaturgia che di regia, che non usiamo abbastanza. Credo ci sia un vuoto cosmico sulla comicità femminile. Mentre a teatro e in letteratura, ci sono delle autrici di opere molto riuscite a livello di voce, al cinema questa cosa non è arrivata. Quello che manca è l’incrocio tra le varie discipline.
Da dove nasce questa divisione secondo lei?
Forse è stato impostato anche a livello normativo, perché abbiamo i finanziamenti per il teatro, per il cinema, per l’opera lirica. Però la mia ambizione adesso sarebbe portare dei talenti del teatro al cinema. A livello di comicità non c’è nessuno tranne Paola Cortellesi che è credibile per il pubblico. Non è successo quello che è accaduto con Fleabag, che è nato a teatro. Abbiamo delle voci teatrali molto belle, anche femminili. Penso a tutta l’opera di Lucia Calamaro che sarebbe bello portare al cinema, oppure a tante altre autrici anche giovani, performer e stand up comedian.
Cosa c’è nel futuro dalla Indigo?
La cosa bella della Indigo è che siamo tanti. E tantissimi sono ragazzi usciti dalle scuole che magari abbiamo incrociato nei nostri percorsi di insegnamento. Non faccio più niente senza consultarmi con loro perché penso che sono più connessi con le cose. Uno fa l’errore di pensare che quello che produce ha sempre l’aderenza con il pubblico, invece non è così. La Indigo Film è il mio orgoglio, di Nicola e di Carlotta. Abbiamo costruito questo posto in cui tante persone amano lavorare. E questo mi sembra già un grande obiettivo. Abbiamo fatto di tutto, dalla progettazione della cucina alla spesa settimanale fino al fatto che c’è sempre un momento della giornata in cui si dice “ma cosa facciamo da mangiare?”. Vedo che tutti hanno il sorriso, sono contenti di lavorare qua, nonostante magari abbiano ricevuto anche delle offerte da vari fronti. Secondo me alzarsi la mattina con la voglia di venire in ufficio è già un risultato. Molta parte della mia giornata lavorativa è dedicata a questo. Siamo tanti e quindi possiamo portare avanti più cose. Personalmente sto lavorando su molti progetti di donne. Sono molto presa da questi incroci di voci femminili in varie tipologie creative. E abbiamo in post produzione anche tre film, vedremo che esito avranno. Io e Nicola ci siamo sempre detti di provare a fare qualcosa che vorremmo vedere come spettatori. Adesso cerco sempre anche di farlo con l’idea di accontentare i miei figli perché sono i peggiori critici (ride, ndr).
La seguono nel suo lavoro?
Vedo in loro che c’è proprio una voglia non solo di vedere film e serie ma anche di partecipare al processo. Sono entusiasta di queste piattaforme in cui si parla di cinema, come Letterboxd. Chiedo sempre ai miei figli cosa scrivono. È un modo abbastanza intelligente secondo me di lasciare una traccia di quello che vedi. Non va sottovalutato il punto di vista di questi ragazzi che hanno voglia di lasciare un segno del loro essere spettatori. Ed è bellissimo che possa essere letto in tutto il mondo. È grande un segnale di interesse. Non ho mai conosciuto tanti ragazzi che vogliono fare cinema come in questo periodo. Le scuole di formazione oggi sono posti meravigliosi. Sono tornata a presentare Il cerchio al Centro sperimentale che è la scuola che ho frequentato io. C’è un’energia bellissima in tutti i corsi.
Se fosse su Letterboxd anche lei, quale sarebbe l’ultimo film visto da aggiungere alla lista?
Ho amato tantissimo As Bestas, che secondo me è un capolavoro pazzesco. Non riesco a capire come mai non abbia vinto tutto quello che poteva vincere. In Spagna ha vinto un Goya. È uno di quei film che mi sarebbe piaciuto tantissimo produrre.
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