SCENA 1 (1990 circa)
Palazzo Monaci / Esterno / Notte
Un importante palazzo nel centro, un tempo proprietà di un nobile casato. Negli anni deve aver subito diverse trasformazioni al fine di conservarne la dignità. Si affaccia per un lato su uno dei due fiumi che taglia in tre la città.
La città è Vicenza.
Ora la macchina da presa inquadra più da vicino il palazzo. Notiamo che all’altezza del piano nobile…
…qualcuno si sta muovendo con cautela sul cornicione. Una figura avvolta in un mantello chiaro, forse una vestaglia. Si avvicina passo dopo passo a una grande finestra…
Sotto scorre il fiume…
(estratto dalla sceneggiatura de La vita accanto)
Una bambina segnata da una voglia sul viso che la deturpa, ma anche da un prepotente talento musicale. Una madre (Valentina Bellè) che non capisce, non può capire, e non riesce ad accettare quella creatura così singolare. Un padre (Paolo Pierobon) legatissimo alla sua sorella gemella (Sonia Bergamasco), che per giunta è una grande pianista, dunque prende sotto la sua ala la nipote, esasperando tutte le già tempestose dinamiche familiari. Mentre il tempo passa, accadono eventi irreparabili, la bambina diventa una ragazza (Sara Ciocca) e poi una donna (Beatrice Barison), sempre continuando a suonare.
Marco Tullio Giordana ha appena finito il suo nuovo film, La vita accanto, come il tumultuoso romanzo di Maria Pia Veladiano da cui è tratto. Ma inizierà a montarlo solo dopo l’estate. “Mi serve una cesura, devo prendere le distanze da tutto quello che abbiamo fatto sul set. Potrei già vedere il film allineato dalla prima all’ultima scena, i montatori Francesca Calvelli e Claudio Misantoni hanno iniziato a lavorarci mentre giravamo, ma non lo farò. Così come non ho visto il materiale giorno per giorno. Farò come ai vecchi tempi, quando il “girato” si vedeva una volta la settimana in bianco e nero, magari in un cinemino di provincia. Voglio essere sorpreso. Oggi tutti guardano quello che hanno fatto il giorno prima e lo trovano bellissimo, per forza. Poi invece i film sono brutti, come mai? Per interrogarsi serve una pausa, uno stacco, una distanza. Al momento non so nemmeno se il racconto correrà avanti e indietro negli anni, come in sceneggiatura, o scorrerà in ordine cronologico. La serialità ci ha abituato a saltare avanti e indietro nel tempo, è diventata una moda, un elemento quasi retorico. Vedremo”.
La sceneggiatura di Gloria Malatesta e Marco Bellocchio, che in un primo tempo avrebbe dovuto realizzare il film, ha subito una serie di modifiche passando nelle sue mani. Era inevitabile?
La gestazione per fortuna non è stata lunga. Quando Bellocchio e Simone Gattoni, il produttore della Kavac, mi hanno proposto di riprendere il progetto tratto da questo romanzo che anni fa aveva sfiorato lo Strega, mi sono letto prima la sceneggiatura, già molto libera, poi il romanzo. I temi erano spiccatamente bellocchiani: la famiglia, il peso dell’educazione religiosa, l’amore impossibile all’interno del nucleo familiare. Mi piaceva, ma erano declinati in chiave molto personale. Potevo farne un falso d’autore. O impadronirmi del film, come lo stesso Bellocchio sollecitava.
Naturalmente ha scelto la seconda strada, con gli occhi fissi su tutto ciò che poteva suggerire l’ambientazione.
Siamo a Vicenza, dove è nato uno storico leader Dc come Mariano Rumor. Una cittadina vissuta nella beatitudine castigata della provincia cattolica per decenni, dal dopoguerra agli anni 70, fino a maturare una ribellione sfociata in istanze autonomiste e rivendicative che viste da fuori risultano pittoresche, ma sono anche motivate. Se vivi qua capisci da dove nascono. Questa è una regione a lungo sottovalutata rispetto ad altre, che godono di un’immagine più brillante. Così, tornando al film, il nucleo religioso è un po’ appassito mentre ha preso slancio il groviglio dei conflitti famigliari, acuiti dagli straordinari doni musicali della protagonista. Ecco, questo è il tema che mi fa palpitare: la presenza del talento, dell’arte, in che modo condiziona la vita di una persona? La riscatta o la condanna?.
E la famiglia? Comunque sia siamo in Italia, dalla famiglia non si scappa.
Questa poi è una famiglia molto abbiente composta in origine da due gemelli, Osvaldo, famoso pediatra e ginecologo (Paolo Pierobon, ndr); Erminia, sua sorella gemella (Sonia Bergamasco, ndr), pianista di fama internazionale; la moglie di Osvaldo (Valentina Bellè, ndr); e la piccola Rebecca che a 5 anni è Viola Basso, a 12 Sara Ciocca, e poi Beatrice Barison, una rivelazione. Cercavo qualcuno che suonasse veramente e ho avuto fortuna: non solo Barison è una pianista provetta, ma è incredibilmente dotata come attrice, senza aver mai fatto nemmeno una recita scolastica. Ha 25 anni ma sembra appena uscita dal collegio. Un ruolo importante poi tocca a Michela Cescon, madre della migliore amica di Rebecca, Lucilla, Un piccolo cameo molto efficace.
Il suo cast è quasi una riunione di famiglia. La città – mai esplorata prima – è stata fondamentale nella costruzione del film?
Di Vicenza conoscevo il teatro Olimpico, come tutti, la rotonda del Palladio, villa Valmarana. Lavorandoci ho scoperto la dolcezza delle sue strade, sempre leggermente curve, anche per via del suolo collinare.
A Vicenza c’è anche l’imponente palazzo Franceschini Folco, già sede della Regione: quasi un coprotagonista del film.
Sì. Rebecca, i suoi genitori e la zia abitano tutti in questa vecchia, sontuosa dimora comprata a suo tempo dal padre dei gemelli per darsi una sorta di nobiltà. Alla morte dei genitori si sono spartiti il palazzo. Al piano nobile abitano Osvaldo e la moglie; sopra, in un magnifico sottotetto dalle enormi capriate, c’è invece un grande open space che Erminia ha arredato facendone quasi una sala di incisione. Con una collezione di pianoforti, spinette, fortepiani e clavicembali, più il suo Steinway, e quasi nient’altro. Ma questa zia sola, quasi una monaca votata alla musica e ai tortuosi rapporti col fratello gemello, naturalmente risveglia la curiosità della nipotina. Una volta che la zia è fuori per un concerto, Rebecca sente infatti l’accordatore, e anche se la tata le dice di non andare a rompere i cojon, lei subito sale. Ha 5 anni, non sa nulla di musica, ma ha l’orecchio assoluto. Così, appena l’accordatore se ne va, sfiora la tastiera, sente la progressione dei suoni, capisce che note simili producono dissonanze, ma le terze o le quinte producono armonia. Ed è così che la zia la sorprende di ritorno dal viaggio. Altro non dirò.
Difficile a questo punto capire cosa sia di Giordana, cosa di Bellocchio, cosa già di Veladiano. O è un falso problema?
Bellocchio e Gloria Malatesta avevano resettato il romanzo negli anni 60-70. Io faccio iniziare tutto negli anni 80 per arrivare al 2000 e oltre, non volevo tornare a un passato che ho già indagato abbondantemente in film precedenti. La sola idea di tornare sugli stessi costumi mi sembrava ripetitiva. Qui siamo quasi nel presente, i nostri giorni premono, come le trasformazioni che sullo schermo non ci sono, perché è un film finalmente libero dall’ossessione così italiana di doversi sempre pronunciare politicamente, emanare editti, schierarsi, eccetera. Niente ormai mi interessa meno di questi conflitti, che si ripeteranno fino all’estinzione del genere umano. E poi gli anni 70 sono già stati raccontati in lungo e largo, mentre gli 80 contengono una specie di euforia, di slancio verso il futuro, di cui oggi, sapendo com’è andata a finire, cogliamo l’apparato illusorio. Ecco, questo mi interessava. Ma è un elemento che avvolge i personaggi come un involucro. Il cuore del film sono i legami famigliari.
Resta un’ultima curiosità. Sul bloc-notes è scarabocchiato un appunto misterioso: riesce a decifrarlo?
Hai scritto MB vs. BB. Immagino stia per Marco Bellocchio Vs. Bernardo Bertolucci, i miei dioscuri. Gli idoli della gioventù, della maturità e poi della decrepitezza. Siamo un po’ delle stesse zone, Bernardo di Parma, Marco di Piacenza, io di Crema. Avevano debuttato giovanissimi, uno nella nobile tradizione colta del cineasta poetico stile nouvelle vague, l’altro rabbioso e più simile al free cinema inglese, ma non erano irraggiungibili come Rossellini, Fellini, Visconti o Antonioni. Erano fratelli maggiori, potevo quasi toccarli allungando una mano. Sarei diventato amico di entrambi: oggi devo pensare a un altro me, per ricordare la soggezione che mi incutevano, mai del tutto scomparsa in verità. Ma la cosa importante è che ho continuato a imparare da loro, ho imparato a scavare, a maneggiare la sofferenza, perchè per entrambi il cinema è stato uno strumento di analisi e autoanalisi. Mentre io ho fatto anche film in cui potevo nascondermi dietro il tema, l’argomento, la biografia. Io detesto mostrarmi, non voglio essere riconosciuto per strada, ad esempio. Poi, certo, ne La meglio gioventù un po’ l’ho fatto anche io.
In forma di romanzo collettivo, però.
Eh sì. Comunque, volente o nolente, sei sempre dentro ai tuoi film, c’è poco da fare (si imbarazza sensibilmente a parlarne, ndr). Anche quando girando provi un sentimento di gioia e di libertà, anzi prima di libertà e poi di gioia (tossicchia, ndr), senti che da qualche parte c’è qualcosa che ti appartiene molto, anche non volendo. È strano come escano fuori queste cose…
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