Mentre a Cannes passava il nuovo film di Marco Bellocchio, veniva annunciato il remake americano dei Pugni in tasca con Kirsten Stewart, Josh O’Connor, Elle Fanning, per la regia di Karim Aimouz con la sceneggiatura di Efthimis Filippou, che ha scritto vari film del greco Yorgos Lanthimos (…e i più pessimisti temono che il film di Bellocchio possa diventare uno di quegli esempi di film da festival cinico e nichilista, in cui l’autore e lo spettatore si sentono superiori a personaggi sgradevoli).
Questa coincidenza casuale illumina un aspetto del cinema di Bellocchio, specie di quello più recente. C’era già, nei suoi primi film, un versante da regista “di genere”, un gusto della regia serrato, da film d’azione. E quando seguì il restauro dei Pugni in tasca 8 anni fa, il regista volle cambiare radicalmente l’aspetto fotografico del film, che per problemi tecnici non era riuscito a ottenere all’epoca: doveva avere i colori e i contrasti di un noir, spiegò, e finalmente oggi ci sono riuscito.
Nuove forme di racconto
Negli ultimi film Bellocchio ha cercato sempre di più una sorta di romanzesco, di contatto col pubblico andando controtempo rispetto all’epoca. In un momento in cui la figura dell’autore di cinema è sempre più indecifrabile e in difficoltà, in cui forse non esiste più un pubblico internazionale per il cinema d’autore, il regista piacentino sembra aver sfidato nuovi pubblici, nuove forme di racconto, con lavori che contemporaneamente sono quasi il riassunto dei suoi temi.
Si è confrontato prima con una vicenda che poteva essere perfetta per una serie Netflix (Il traditore), con una prima parte da action movie che poi diventa un processo teatrale, claustrofobico e intimo; poi ha davvero fatto una specie di anti- serie (Esterno notte), composta da sei film, divisa tra racconto della Storia ed evocazione di misteriose inquietudini.
Lo scontro tra individuo e potere
Come tutti i grandi registi, Bellocchio trova degli spunti reali che sembrano inventati da lui, o comunque li trasforma in copioni per i suoi fantasmi. Spesso il tema è lo scontro tra le ragioni dell’individuo e quelle del potere. Una madre che sembra sfidare da sola il fascismo in nome dell’amore per il figlio (Vincere). Nella vicenda del pentito Tommaso Buscetta, il conflitto tra il desiderio di vita e un potere maschile (quello di Cosa Nostra) innamorato della morte, e il tradimento come gesto di libertà personale.
In Esterno notte, il conflitto tra la pietà umana e la ragion di stato. E lo stesso tema torna anche in questa storia, anch’essa reale, ambientata nello Stato Pontificio a metà ‘800, alla vigilia dell’Unità d’Italia, con un bambino ebreo battezzato di nascosto e strappato dalle autorità alla famiglia d’origine, la quale non si rassegna a perderlo.
Intreccio di passioni
E’ sempre il potere l’ossessione di Bellocchio. Il film racconta sì le sofferenze della famiglia del bambino rapito, il suo crescere in un collegio cattolico fino a convertirsi, con un rapporto di amore-odio verso la famiglia del passato e quella presente. Ma in realtà il racconto è corale, anzi sembra essere proprio l’intreccio di passioni, poteri e principi ad aver affascinato il regista.
Come Esterno notte era costruito raccontando la storia del sequestro di Moro da sei differenti punti di vista, allo stesso modo si potrebbe immaginare la storia di Mortara raccontata dai tanti personaggi che gli ruotano intorno: la famiglia, il bambino, l’inquisitore, il Papa.
E’ a quest’ultimo, anzi, magistralmente interpretato da Paolo Pierobon, che sembra a un certo punto emergere quasi come protagonista del film. Il suo è il dramma di un potere che vacilla, che rifiuta il dubbio e che è assediato dagli incubi. E Rapito racconta l’ingiustizia ma scavando tra sfumature e ambiguità, tra la visione della Storia e il cuore degli uomini.
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