“Ci faresti una foto?”. Julian Schnabel si alza di colpo – il motoscafo su cui si trova sbarella un istante – e si mette in posa, tra la compagna Louise, il figlio Cy e la fidanzata di lui, Ludovica, sul divanetto a poppa, la più classica delle pose possibili quando si sta tra i canali di Venezia a bordo di un taxi d’acqua. Ma non importa da quale angolazione si tenti di fare la foto, lo scatto proprio non riesce: Schnabel è letteralmente troppo grande, fuori misura, l’effetto è grottesco, sembra un adulto seduto su una seggiolina della scuola materna.
Eppure su quei divanetti saranno senz’altro passati uomini più alti e grossi di lui – e avranno scattato foto ben riuscite. Non è solo una questione di stazza, dunque. C’è qualcosa in più, percepibile da chiunque abbia avuto modo di conoscere l’artista e regista di Basquiat, Van Gogh, Lo scafandro e la farfalla (vincitore nel 2008 del premio miglior regista a Cannes, di due Golden Globes e candidato lo stesso anno agli Oscar): Julian Schnabel va oltre la locuzione “larger than life”, epiteto inflazionatissimo quando si parla di lui. Julian Schnabel è la personificazione del concetto di horror vacui: al suo cospetto ogni spazio, non importa quanto grande o quanto vuoto, si riempie all’istante fino a sembrare troppo piccolo, quasi soffocante.
Pittore, regista, designer, Schnabel, nato nel 1951, è tra i maggiori esponenti viventi del neoespressionismo statunitense, emerso dalla fertile, rampante e visionaria scena newyorkese tra fine anni ’70 e anni ’80: una scuola che coniuga l’astrattismo con una forte componente gestuale, irruenta – quella di Jackson Pollock e Cy Twombly per capirsi – ma con una spiccata vena figurativa, il “ritorno alla pittura” che segnò quegli anni, che Schnabel racconta nel suo primo film, Basquiat, incentrato sulla vita dell’artista morto a 27 anni, interpretato da Jeffrey Wright, con un riuscitissimo David Bowie nei panni di Andy Warhol.
Tra le opere più significative e riconoscibili di Schnabel figurano i plate paintings, ritratti di personaggi storici e contemporanei, famosi o meno, realizzati con cocci di porcellana assemblati e colorati, ma negli anni l’artista ha dipinto su ogni supporto possibile, purché enorme: dai tendaggi divorati dal sole fino ai teli di pvc che ricoprono i camion.
Abbiamo incontrato l’artista, che raramente concede interviste, in occasione della Mostra del Cinema, dove è passato per sostenere il figlio Olmo, alle prese con la sua opera prima, Pet Shop Days, presentata fuori concorso nella sezione Orizzonti. Un festival che Schnabel (padre) conosce bene e che, nel 2000, lo ha premiato con il Leone d’Argento per Prima che sia notte. Si presenta all’appuntamento all’Hotel ‘Ca Sagredo, nel cuore di Venezia, con indosso una tuta bianca da imbianchino con tanto di macchie di pittura, completata da un elegantissimo doppiopetto blu e un cappello di feltro: una variazione sul tema rispetto alla sua mise d’ordinanza, il pigiama di seta, che da anni il pittore sfoggia in tutte le occasioni mondane. “Oggi dovrei essere pagato cinque dollari per ogni persona che indossa un pigiama”, scherza.
Pittore, regista, designer. Possiamo definirla anche fashion icon?
La cosa mi ha sempre fatto ridere. La gente ne ha sempre fatto un dramma (dei pigiami, ndr), ma dietro non c’è mai stato un mio interesse nel fare chissà che ‘fashion statement’: semplicemente mi piace stare comodo. Anche questa tuta che indosso, la uso per lavorare perché non c’è la cintura, non stringe, adoro non dover pensare a quello che indosso. Ricordo il mio primo Festival di Venezia, nel 1996, quando abbiamo presentato Basquiat, avevo una giacca blu e un pigiama bianco, mi sono sono tolto la giacca in sala prima dell’inizio del film e improvvisamente, nonostante fossi circondato da centinaia di persone, mi sono sentito sul divano di casa mia. E’ una sensazione fantastica. E poi i pigiami mi fanno sentire come un paziente in ospedale, e il mondo in un certo senso è un grande ospedale. Di seguire la moda non me ne è mai fregato nulla, nel 1978 ho fatto un dipinto intitolato “The Death of Fashion”. Ma piaccio agli stilisti. Proprio pochi giorni fa, qui a Venezia ho incontrato Alberta Ferretti che mi ha detto di avere due miei quadri, il ritratto di Azzedine Alaya e quello di Peter Brandt.
A propositi di ritratti, ne ha fatti a decine durante la sua carriera: mogli, fidanzate, tra cui la sua ex Rula Jebreal, autoritratti, Azzedine Alaya, Van Gogh in tutte le versioni compresa quella con le fattezze di Willem Defoe, che interpreta nel suo film il tormentato pittore olandese. Deve avere decine di aneddoti da raccontare sui suoi ritratti…
Qualche tempo fa ho dato lezioni di pittura a Paolo Sorrentino, e il risultato non è per niente male!
Ci racconti.
[Il periodo è quello degli Oscar 2022, con E’ stata la mano di Dio candidato come miglior film straniero, ndr]. Il mio amico Paolo voleva dipingere un quadro, e gli ho detto ‘bene, ti darò lezioni di pittura. Vieni nel mio studio a New York’. Inizialmente avevo pensato di farmi ritrarre da Sorrentino, ma poi ho capito che dovevo supervisionarlo passo passo, standogli accanto. In quel periodo c’era un giovane italiano che lavorava per me, ho chiesto a lui di sedersi al mio posto. E in pratica ho detto a Paolo: ‘Ok, la tela è stata preparata con un fondo marrone scuro. Ora dipingi solo la luce’. Gli occhi di Schnabel, pur coperti da occhiali fumè, s’illuminano – a proposito di ‘fuoco sacro’ – mentre mima e spiega i suoi gesti pittorici a THR Roma.
“Se ti guardo, vedo la luce che colpisce il tuo naso. C’è un segno lì, è un segno. La vedi quella linea? Dipingi solo quella, non cercare di dipingere tutto il viso”. Poi gli ho detto: ‘adesso guarda sul lato sinistro del naso, vedi la luce che si posa tra lo zigomo e la guancia? Prendi questo giallo Napoli, dipingi solo quella”. E abbiamo continuato così, l’ho guidato passo passo nel processo. E quando ha finito, il ragazzo ritratto era effettivamente riconoscibile. Poi ho dipinto il cielo attorno al soggetto e gli ho mostrato come usare la vernice. Poi ci abbiamo messo sopra un po’ di resina. Oggi il quadro è appeso a casa sua, lo ha spedito a Roma. E’ anche bello!.
Non capita tutti i giorni di prendere lezioni di pittura da un maestro come lei.
Paolo era felice. Credo che non si sia mai divertito così tanto con i vestiti addosso.
C’è un o un’altra artista che vorrebbe raccontare sul grande schermo?
Grazie per aver parlato anche al femminile, perché in questo momento ho pensato che mi piacerebbe fare un film su Artemisia Gentileschi, ha avuto una vita molto interessante. Mi piacerebbe anche raccontare Caravaggio, devo dire che non ho visto il film con Riccardo.
Intende L’ombra di Caravaggio, con Riccardo Scamarcio, giusto?
Sì. Non ho visto quel film, ma c’è un bel libro di Peter Robb su Caravaggio a cui ispirarmi, chissà.
Ha un nuovo progetto in cantiere?
Sì, inizio a girarlo tra poco. E’ un film su Dante, basato sul libro Le mani di Dante di Nick Tosches, che mi è piaciuto molto. Sono due storie ambientate in mondi paralleli una ambientata ai tempi di Dante, l’altra nel 21esimo secolo. La mia percezione è che lo stesso Tosches sia una sorta di reincarnazione di Dante Alighieri. E’ un film dove non c’è futuro, non c’è passato, ma solo il presente eterno. Ci lavoro da parecchio tempo, iniziamo a girarlo a ottobre.
Girerà in Italia?
Sì. Giriamo in un sacco di città italiane. Giriamo a Venezia, a Tarquinia, Bracciano, Padova, Verona, Palermo… Oscar Isaac avrà il ruolo principale. Ma ci saranno molte sorprese.
Anche a Bracciano, diceva? Cosa c’entra Bracciano con Dante?
Firenze non è più come un tempo, mi servivano degli luoghi intimi, tranquilli, non stravolti dal turismo, e a Bracciano li ho trovati.
Cosa lega, a suo avviso, arte e cinema?
Per me fare cinema è un modo per comunicare in una modalità completamente diversa rispetto alla pittura. La grande differenza tra dipingere e fare film è che i film raccontano storie attraverso le azioni delle persone. Le persone che guardano i quadri non devono necessariamente sapere cosa significano. A volte non so nemmeno cosa sto facendo mentre lo faccio, e non ne ho bisogno. Quando lo riguarderò più tardi, deciderò: va bene o no? Ma per i film è diverso: puoi ritoccare un quadro, non puoi fare lo stesso con l’azione delle persone: finché la pellicola dura, o il mondo non esplode, potremo continuare a rivedere, immutati, capolavori come I quattrocento colpi o La battaglia di Algeri. Il senso di un film deve essere molto chiaro fin dall’inizio. E spero che i miei film siano così.
Cosa ha imparato dal cinema?
“Questo concetto del raccontare l’azione è un’opportunità che non avrei mai pensato di avere, in quanto pittore. E poi, lo ammetto, sono nella posizione di non aver bisogno di accettare un lavoro per lavorare, quindi è bello avere un’occupazione diurna. Allo stesso tempo fare film è anche molto frustrante. Ci sono un’enorme quantità di persone nel mezzo. E con tutti questi agenti tra i piedi, a volte mi sento un po’ un mandriano di gatti. E sinceramente, non m’interessa. Ma una volta che superi questo scoglio, e ti ritrovi nel momento, è lì che scatta la magia: è trovarmi con Willem Dafoe (amico e attore feticcio di Schnabel, presente in buona parte dei suoi film, ndr) e decidere di tuffarci nella buca insieme. Se ne riusciamo a uscirne, ce l’abbiamo fatta. Se restiamo intrappolati, falliamo. E’ questo il cinema, è registrare un momento, è una questione di attimi.
Per esempio, quando stavamo realizzando Van Gogh, Nils Auerstrup, che è un grande attore, a un certo punto fa una battuta con una parola che non era chiara. Gli ho chiesto di ripeterla, ma lui ha risposto: “Sono come una foglia che soffia nel vento. Non so dove fossi con la testa quando l’ho detta. Non credo di poterla dire di nuovo”. Poi l’ha ripetuta comunque. Ma in quel momento ho capito l’essenza del cinema. Gli attori imparano ad aver una tale sicurezza in sé stessi da potersi perdere, prestandosi a qualsiasi cosa voglia fare il regista. Jean Renoir diceva che il problema del mondo è che ognuno ha le sue ragioni. Ecco, il cinema è questo, vive di ragioni ed attimi irripetibili, vive di presente, non di quello che c’è prima o dopo.
E’ un sogno nutriva da sempre, quello di darsi alla regia?
Non avrei mai e poi mai pensato in un milione di anni di ritrovarmi in sala a Venezia o a Cannes a vedere uno dei miei film. Ma devo ringraziare alcuni miei amici e maestri, come Bernardo Bertolucci. Quel poco di italiano che so lo devo a lui, grazie a Novecento, che ho visto solo in italiano, senza sottotitoli, durante gli anni che ho vissuto in Italia, tra il 1976 e il 1982, giovane e povero. Devo a Bernie l’essere riuscito a portare Lo scafandro e la farfalla a Cannes. Inizialmente non volevano inserirlo in concorso. E io mi rifiutai di partecipare al festival. Al che Gilles Jacob chiamò Bernardo Bertolucci e gli disse: “Che problema ha il tuo amico Julian? Non vuole partecipare al festival.” Lui rispose: “Beh, ha detto che non avrebbe partecipato al concorso e non vuole farlo”. Subito dopo, Bernie mi richiama e mi dice: “Sei in gara”. All’epoca non eravamo nemmeno davvero amici, evidentemente vide qualcosa in me. Gli sarà per sempre molto grato.
A Venezia è stato proiettato il film di suo figlio, Olmo, che non è nuovo, come altri membri della sua famiglia, a partecipare ai suoi progetti cinematografici. Si è mai sentito tacciare di nepotismo?
A dire il vero è la prima volta che sento una cosa del genere, e non è una domanda a cui voglio rispondere. Non amo questa parola e non amo chi la usa.
Resta comunque un dato di fatto: lei non si è mai fatto scrupoli a lavorare con membri della sua famiglia.
I figli di artisti inevitabilmente digeriscono l’ambiente che li circonda, penso a Charlotte Gainsbourg, o non so, Josh Brolin. Forse è una questione di osmosi. Penso che i miei figli vedano il mondo in parte attraverso i miei occhi. La mia ultimogenita ha 21 mesi, si alza al mattino, si avvicina ai miei quadri, li indica e dice “quello, quello, quello”. E’ stata la sua prima parola. Ora ha anche iniziato a dipingere, ma la sua prima pulsione è stato toccare i quadri, entrare in contatto con loro. Allo stesso tempo però, io sono cresciuto in un posto dove non c’era arte. I miei genitori non avevano dipinti, e non sapevano nulla al riguardo, ma mia madre mi portava ai musei. E ricordo che provai una folgorazione al Met, davanti a un quadro di Rembrandt in cui Aristotele contempla il busto di Omero. Ecco, se c’è una cosa in comune tra la mia infanzia e quella dei miei figli è l’aver vissuto tanto amore. I miei genitori si amavano tantissimo, sono stati insieme 65 anni. Se c’è qualcosa che fa sì che le persone abbiano successo o siano brave in qualcosa è probabilmente l’amore. Se amate i vostri figli e date loro la possibilità di fare quello che vogliono fare, cercando di evitare che si autodistruggano nel farlo, ecco, forse potranno farcela nella vita.
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