È la prima volta di Vittorio Moroni a Venezia in veste di regista. Lo scorso anno era al Lido per L’immensità di Emanuele Crialese e chissà se ci tornerà per Familia, il nuovo film di Francesco Costabile ora in produzione. Il suo ultimo lavoro dietro la macchina da presa di chiama L’invenzione della neve. Presentata alle Giornate degli Autori nella sezione Notti veneziane, la pellicola segue la storia di Carmen (Elena Gigliotti). Una donna che ama troppo intensamente. Nonostante si sono lasciati continua a considerare Massimo (Alessandro Averone) l’uomo della sua vita. Adora Giada, la figlia che hanno avuto insieme e che adesso ha cinque anni.
La bambina è stata affidata al padre. Alla madre è permesso di vederla una volta ogni quindici giorni. Ma Carmen non ci sta: sa di aver commesso degli errori, ma anche di essere una buona madre e non permetterà che il destino si ripeta, che accada di nuovo quello che le è successo da bambina.
Nel film ha lavorato su “sei momenti” senza interruzioni. Perché ha scelto questo approccio?
Ho unito due traiettorie del mio percorso a cui tengo molto. Quella della scrittura – persino teatrale – e quella del documentario. Il film nasce da una storia reale. Ho conosciuto e frequentato una persona, ma ho capito che non sarebbe stato possibile fare un documentario. Ho cercato di restituirne la verità attraverso un dispositivo che desse la possibilità di far succedere davvero delle cose sul set. Per farle accadere volevo eliminare qualunque tipo di rifugio, di predeterminazione delle cose. Non volevo, ad esempio, la dittatura dell’inquadratura e che gli attori, ad un certo punto, potessero superare la mia conoscenza dei personaggi. Saperne di più di me.
Ci sono riusciti?
Sì. Hanno scavato dentro le loro storie e hanno accettato quello che fin dal primo giorno gli ho chiesto: mettere in comunicazione elementi della loro vita con elementi delle storie dei personaggi. Per 25/30 minuti non era possibile rifugiarsi, non era possibile chiamare il time out, ma bisognava stare dentro quella situazione qualunque cosa accadesse. Bisognava usare l’imprevisto e non considerare l’errore come tale ma farlo diventare un’opportunità. Inoltre esasperavo questo dispositivo chiedendo a ogni singolo attore, senza che l’altro lo sapesse, di andare in una certa direzione che normalmente illuminava o esasperava alcuni dei loro conflitti.
A cosa ha portato?
Si finiva per ritrovarsi in un sistema che, in qualche modo, somigliava al documentario di osservazione. Non si sapeva dove l’attore avrebbe deciso di andare né come avrebbe reagito a una certa cosa. C’era anche una sorpresa visiva. L’operatore era costretto a perdere il fuoco e ritrovarlo. C’era una necessità di essere lì senza protezione. Ogni take era unico anche se poi ho montato ogni piano di sequenza l’uno con l’altro. Non stavo cercando il virtuosismo. Sarebbe stato l’opposto.
Avrei dovuto predeterminare a freddo tutto quello che doveva avvenire in scena. Abbiamo lavorato a lungo sulla sceneggiatura. Era molto importante quella mappa però non volevo che fosse il viaggio stesso. In una scena Carmen entra in casa e la luce non si accende. Non sarebbe dovuta andare così. Ma quell’errore tecnico arrivava al culmine di una sequela di cose negative per il personaggio diventando parte della narrazione.
Quello di Carmen può essere un personaggio spigoloso. Non è sempre facile comprendere le sue azioni. Come ha lavorato con Elena Gigliotti?
È un personaggio completamente controverso. La sfida, iniziata forse ancor prima che dalla sceneggiatura dall’incontro con la persona che l’ha ispirato, era proprio il fatto che questa figura mi interroga – e spero interroghi anche gli spettatori – rispetto al confine tra bene e male. Fa una serie di cose discutibilissime, che potrebbero non essere approvate da un punto di vista morale, spiacevoli e sgradevoli. Al tempo stesso più andiamo avanti più ci rendiamo conto che, stando dentro il suo punto di vista, ne comprendiamo la forza benevola, le motivazioni. Carmen incarna l’idea che il film ha di mettere in difficoltà lo spettatore, scena dopo scena.
Cosa spera che il pubblico prenda da lei?
La mia speranza è che dopo la prima scena lo spettatore abbia delle idee, la sensazione di poter empatizzare con qualcuno, che decida più o meno chi sono i buoni e chi i cattivi. Ma che poi, dalla seconda scena, debba rimettere in discussione molte cose. Ogni volta scopriamo degli elementi che ribaltano o mettono in grande difficoltà la nostra possibilità di adesione. È quello che accade anche nella vita, dove non ci sono buoni e cattivi, dove non è prestabilito dall’inizio se faremo cose orribili o sante.
Non dipende solo dalla qualità di chi siamo ma dalle circostanze, desideri, privazioni, ferite. Mi piacerebbe che lo spettatore fosse costretto a perdersi un po’ tra questi due poli, a dover stare dentro il cuore e il cervello di una persona che compie degli atti anche molto negativi. Ma di farlo empatizzando, provando pietà ed essendo costretto a sorridere con lei e desiderare le sue stesse cose. Non so se tutto questo accadrà, ma era nelle mie intenzioni.
Nel film c’è un continuo parallelismo con il mondo animale, fin dalla primissima scena animata accompagnata da una fiaba che ossessiona la protagonista.
Penso che il film si muova su questi due binari paralleli. Da una parte quello che accade davvero nella realtà e dall’altra quello che lei immagina possa accadere. È come se questa fiaba, dipinta da Gianluigi Toccafondo, ci accompagnasse dentro il mondo emotivo ed istintuale di Carmen. Un mondo che sembra flirtare con quello animale. Come se lei si riconoscesse in questa prossimità maggiore con agli animali. Dentro a quel mondo c’è una una prospettiva di speranza e bellezza. Un altro modo di guardare le cose che ossessivamente, in modo forse quasi folle, Carmen evoca. Ci si aggrappa per tentare di resistere allo sconforto.
Secondo lei qual è il ruolo di un festival cinematografico oggi? Non soltanto per gli addetti ai lavori, ma per il pubblico?
Non ho mai creduto alle competizioni tra film. Ci sono dei titolo che ho incontrato ad una certa età e non li ho capiti se non molto tempo dopo. Non sono convinto sia possibile giudicare in un modo definitivo. Prendo tutto questo mondo festivaliero un po’ come un gioco in cui c’è una dose di casualità e una dose di potere. Riconosco ai festival però la possibilità di salvare dei film, soprattutto in questa stagione della vita del cinema in sala così difficile. Sono molto grato alle Giornate degli Autori per aver scelto il nostro film che si confronterà con un pubblico dal vivo.
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