La Roma de La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino è una Roma a metà, sempre divisa, sospesa, fumosa, piena di eccessi e meraviglie, portata via dalla musica lirica e da quella popolare, dai balli di gruppo e dai cori; è una Roma pulita, turistica, assurda. Frequentata da personaggi incredibili, felliniani, e da un’idea cocente di arte e creatività.
Jep Gambardella, interpretato da Toni Servillo, non è solo – e banalmente – il protagonista; è la truppa d’avanscoperta del pubblico, è quello che dice e che fa, che non lascia niente di intentato, che dà pane al pane e vino al vino (“su donna con le palle crollerebbe qualsiasi gentiluomo”, graffia); non ha paura, e non è un incosciente, è uno scrittore, un giornalista, ha uno zoccolo duro da difendere, e delle domande a cui trovare una risposta.
Pensa al passato, nostalgico e malinconico, e vede il futuro confusamente, come in una coltre di nebbia fitta e lattiginosa. Quando alza lo sguardo al soffitto della sua camera da letto vede il mare, e sente il rumore dei motoscafi (“tuff, tuff, tuff”, per citare È stata la mano di Dio). La Grande Bellezza veniva presentato, in anteprima, dieci anni fa, al festival di Cannes. E da allora ne sono successe, di cose. A noi, come italiani, e a Sorrentino, come regista.
Il grande illusionista e la santa
In molti, in questo film, hanno rivisto Hanno tutti ragione, il suo libro pubblicato da Feltrinelli. Collaborare con Umberto Contarello, che ha co-scritto la sceneggiatura, gli ha permesso di trovare un altro equilibrio: non migliore, e nemmeno peggiore; semplicemente diverso. Il viaggio di Jep – perché sì, questa è la storia di un viaggio – è per tutti, universale e allo stesso tempo speciale. Roma, nelle sue passeggiate, sembra un’altra cosa. E viene da un altro universo.
Jep sbircia, sa dove guardare; e così trova il grande illusionista, il grande regista, la santa, il marito del suo primissimo amore, anfratti dimenticati e locali leggendari, l’alto e il basso, il volgarmente accettato e la moda chirurgica. Jep ritorna continuamente con la mente alla sua giovinezza, e in questo, forse, c’è qualcosa di autobiografico: Sorrentino non l’ha mai detto; è più una sensazione.
Baci, tragedie, politica e orrori
Invece ha assicurato che tutti i suoi film sono storie d’amore. La Grande Bellezza, però, racconta un amore diverso, un amore viscerale, profondo, apparentemente – per l’utilizzo di immagini spettacolari e quasi oniriche – superficiale. E invece è bellissimo, intenso, appassionato. Come in una canzone di Antonello Venditti. Sorrentino, con questo film, ha ritrovato Servillo, ma ha anche dato una grande opportunità a Carlo Verdone e a Sabrina Ferilli, che nelle sue mani, con le sue parole, diventano una delle tante anime di Roma (il personaggio di Verdone si chiama Romano; il personaggio di Ferilli, al contrario, Ramona).
Sono declinazioni, sfumature, piccole verità ovvie che fa sempre piacere sentire – perché non ne parliamo mai; le teniamo continuamente nascoste. Verdone interpreta l’anima innocente, Ferilli quella vissuta. Sono tra i pochi – pochissimi, anzi – a conoscere davvero Jep. Che con loro parla, rivela ciò che non ha mai rivelato a nessuno, ed esce magnificamente dal suo personaggio: questo sessantenne meraviglioso, tonico e al limite del poetico è un pezzo di carne come tanti altri, e soffre, si strugge, ripensa sempre alle stesse cose. Non è invincibile, come qualcuno potrebbe pensare. E non è nemmeno perfetto. Jep, come dice lui stesso all’inizio de La Grande Bellezza, è destinato alla sensibilità.
La Roma di Paolo Sorrentino
Sorrentino, di sensibilità e radical chic, di politica e orrori, parla consapevolmente. Non è la voce del giudice, come qualche critico ha scritto; è la voce dello spettatore, che nella sua posizione privilegiata vede tutto e il contrario di tutto. Vede, appunto, due diciottenni che si baciano dolcemente, senza mai fermarsi, nello spiraglio di un’altra stanza (“Si sono conosciuti dieci giorni fa, all’Università”, dice Romano, “Sono dieci giorni che si baciano”); e vede anche la tragedia della Costa Concordia nella sua tremenda maestosità, senza aggiungere niente a quanto già detto, senza voler appesantire ulteriormente una cronaca già bulimica di ghirigori e dettagli, ma lasciando parlare unicamente le immagini.
Ecco, La Grande Bellezza è un film fatto anche, se non soprattutto, di questo. Immagini. Belle, intense, studiate. Illuminate da Luca Bigazzi, ritagliate e messe insieme dal montaggio di Cristiano Travaglioli, prodotte – ché è importante dire anche questo, per un film premio Oscar – dalla coraggiosissima Indigo di Nicola Giuliano.
La Dolce Vita e le miserie italiane
Forse, tra i tanti aspetti di questo film, le immagini sono quello che ha colpito di più gli americani, che sembrano ancora ubriachi dell’idea di Fellini e della sua Dolce Vita, e che invece, forse, non hanno mai compreso, non veramente, quel grande conflitto interiore che, in quanto italiani, viviamo quotidianamente. Siamo piccoli, piccolissimi. E grandi, enormi, sicuri di noi. Due miserie in una, per citare Giorgio Gaber.
La Grande Bellezza non è uno di quei film studiati – i film, chiedo, si studiano? – a tavolino per vincere una statuetta, per compiacere qualcuno; è un film enorme, pieno zeppo di colori, battute, inquadrature; un film vorace e travolgente. Sensibile e contemporaneamente insensibile. Proprio come Roma (“L’ultima immagine è per Roma, lì dietro, ferma e assolata, monumentale e bellissima. E insensibile”, scrivono Sorrentino e Contarello nel copione, nella primissima scena).
Jep fa un percorso preciso. Ritrova il suo equilibrio, la sua penna, la sua voce. Nell’aprirsi agli altri, riconosce sé stesso. E nel riconoscere sé stesso, finalmente, capisce. Non la miracolosità della vita, no: quella è una delle piccole verità ovvie di cui abbiamo già parlato. Capisce la sua meravigliosa tragedia, e la sua fuggevolezza e tutte quelle cose di cui già s’è scritto e detto e che proprio per questo suonano sempre più vere delle altre, quelle di cui nessuno s’è mai occupato.
La grande bellezza, monumento di Roma
La Grande Bellezza è un monumento cinematografico. È marmo scolpito, ed è acqua fresca, corrente, che non ristagna mai. Non è il Tevere; è il mare di Capri, il mare degli occhi di Jep. Il mare di quello che siamo stati, e che rimpiangiamo come un’estate finita all’improvviso, e che non troviamo più, se non nei nostri sogni.
In dieci anni, Sorrentino è cambiato, e l’abbiamo già detto; ma nel senso più puro: s’è affinato, ha osato ancora di più – con The Young Pope e The New Pope, per esempio; ma pure con Loro su Silvio Berlusconi – e poi è tornato indietro, nel suo centro, comprimendosi in un racconto autobiografico (senza quasi, stavolta) e rimettendo davvero mano a certe cose e certi passaggi che già aveva scritto in Hanno tutti ragione.
E l’Italia? L’Italia, forse, è cambiata poco, pochissimo. O s’è stravolta del tutto: dipende dai punti di vista. Roma, immobile e bellissima, sempre per citare Sorrentino, è ugualmente apatica. Osserva i sindaci che s’alternano, e non fa niente per aiutarli – o per distruggerli. Guarda la sua gente incaponirsi, combattere e lasciar perdere, e non dà niente, zero, nemmeno un cenno, per confortarli.
Il cinema, invece, è un’altra bestia, un’altra creatura. E forse, di film come La Grande Bellezza, non se ne sono più fatti. Forse, quella capacità effettiva di unire meraviglia e sorpresa, visione comune e visione elitaria, s’è persa. O molto più semplicemente: rimane inascoltata. Perché non ci piacciono quelli brillanti, capaci, quelli che qualcosa, rispetto a noialtri, l’hanno capita. E dunque anche il cinema, in un esercizio pigro, s’è appiattito. Con delle eccezioni – poche, luminosissime e meravigliose eccezioni, ma comunque incapaci di ricreare il “miracolo” de La Grande Bellezza, che è stato spinto innanzitutto da Indigo più che da Medusa, sia qui, in patria, sia all’estero per gli Oscar.
L’immaginario che si fa tormentone
Oggi svegliarsi e dire “l’odore delle casa dei vecchi” o “la fessa” sarebbe assurdo, inconcepibile. Un meme. Verrebbe immediatamente tacciato: di cosa, a essere onesti, non lo sappiamo; ma sì, andrebbe esattamente così. Il cinema è un posto più piccolo, adesso. Proprio perché, nel nostro paese e nel nostro mondo, sono arrivate altre realtà e altre voci: quando ci sono soldi e possibilità, lo sguardo fa fatica a mettere a fuoco, a dare precedenza alle cose veramente importanti.
Resta, quindi, un augurio, quello a Jep e a Roma, nella voce straordinaria di Serena Grandi. Dieci anni fa, al cinema, a Cannes, arrivava La Grande Bellezza. E oggi, dieci anni dopo, ci pensiamo ancora. Il cinema che non si limita a rimanere, ma che convince, che entra nell’immaginario comune e che si fa tormentone, è un cinema destinato a diventare un classico, un cult. Destinato – rieccoci – alla sensibilità. La Grande Bellezza, allora, è anche un po’ nostra.
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