C’è un aneddoto meraviglioso su George Best, campione nordirlandese tutto genio e sregolatezza, il quinto Beatle, l’uomo che ha “speso gran parte dei miei soldi per alcool, donne e macchine veloci, il resto l’ho sperperato”. E non è la frase, pur meravigliosa, “se non fossi nato così bello, non avreste mai sentito parlare di Pelè”.
È una leggenda, vera. Raccontata proprio dal numero 7 più forte della storia del calcio. “Era il 1976, si giocava Irlanda del Nord-Olanda. Giocavo contro Johan Cruyff, uno dei più forti di tutti i tempi. Al 5° minuto prendo la palla, salto un uomo, ne salto un altro, ma non punto la porta, punto il centro del campo: punto Cruyff. Gli arrivo davanti gli faccio una finta di corpo e poi un tunnel, poi calcio via il pallone, lui si gira e io gli dico: ‘Tu sei il più forte di tutti ma solo perché io non ho tempo’ ”.
Ogni volta che penso a Libero De Rienzo, all’attore, non all’amico Picchio, ma forse pure un po’ a quest’ultimo, mi viene in mente questa frase. Perché ogni volta che lo vedevamo tutti sul set, su uno schermo, al suo festival di Procida, ogni volta che rivedevamo il suo unico film da regista, lo pensavamo. Se solo avesse voluto, Libero, e potuto – diciamo che il cinema italiano ha saputo emarginarlo con cura, per il suo essere naturalmente al di fuori delle miserie del suo ambiente e così costretto, con quel talento, al quarto o quinto posto sul manifesto dei film che interpretava – ora parleremmo del migliore di tutti. Ma non aveva tempo e voglia di impelagarsi in gare inutili: lui è uno che il suo David, in barba a tutto e tutti, con una giacca fuori misura, lo dedicò agli uomini e alle donne palestinesi, “al troppo sangue che in questo momento sta sgorgando in Palestina”, davanti a Roger Moore, Milly Carlucci e Anna Valle. Quanto ridevamo di quel quartetto così assurdo su quel palco.
Lo vincesti a 25 anni, come non protagonista (difficile definirti tale per quel film, ma va bene così) di Santa Maradona.
E lì c’eri tu, in tutta la tua meraviglia dolente: fuori posto, bello come il sole, dolce e ferito da ogni ingiustizia che accadeva, rigoroso, coraggioso, incapace di cercare la tua convenienza con ossessiva pervicacia. E i tuoi occhi, Picchio. I tuoi occhi. Come faccio a raccontare, guardandoli, che eri uno dei pochi che sapeva farmi ridere da sentirmi male. E sempre all’improvviso, in differita, perché la tua mente era troppo veloce per me.
Non eri solo l’attore migliore di tutti, eri tanto. Pure troppo. Che avessi un talento unico lo dicono i tuoi colleghi, i coetanei, quelli come Elio Germano che giustamente tali vengono definiti.
Ma Picchio – così lo chiamavamo tutti, prima ancora di Favino – non aveva tempo e voglia di fare l’attore. Voleva fare il regista, voleva mettere su una tv che si occupasse dei tecnici del cinema e della tv – chi lo ha diretto sa che avrebbe persino rinunciato a parte del suo cachet per fare l’operatore di macchina -, voleva che il suo festival a Procida crescesse sempre di più. Voleva fare il regista e ne aveva di talento per esserlo, ma il suo Sangue fu così ingiustamente maltrattato (passò a Locarno, e piacque molto) dalla distribuzione, che quell’impeto gli morì dentro. In un buco nero che quel ragazzo che sapeva conquistarti con una battuta, inchiodarti alle tue responsabilità con un giudizio affilato, stupirti con un’analisi sempre altra, coltivava da sempre, aperto dalla perdita mai metabolizzata dalla mamma e da una diversità profonda dal resto del mondo, da una purezza tenace, dalla voglia di fare sempre la cosa giusta, anche a proprio danno.
Picchio, mi manchi. Ti sei perso tante cose – la mia direttrice dice che non si parla in prima persona in un articolo, ma di te io non potrò mai parlare in terza – lo sai? Cose che mai avremmo immaginato.
Hanno aperto The Hollywood Reporter Roma e mi hanno voluto come vicedirettore e te mi dicevi sempre “il potere non fa per te, perché tu non fai per lui: sa che non potrà cambiarti”. E io vorrei che fossi qua per raccontarti che c’è anche un altro modo di essere e di esistere in quel mondo giornalistico che criticavi aspramente e che anche dal cinema e il suo mondo possono nascere i fior.
E poi, pensa, il Napoli ha vinto il suo terzo scudetto. So che stai sorridendo pensando a cosa posso aver fatto la notte del 4 maggio. Pensa, tra le altre cose ho smesso di fumare. Carlo, quando andiamo a Villa Carpegna, mi chiede di te. Ignazio La Russa è presidente del Senato, quella ragazza con cui parlammo a Locarno, cinefila e che voleva fare l’aiuto regista su un set, Elly Schlein, ora è segretaria del Pd. Lo so, Picchio, sembra Goodbye Lenin, ma è così. Te ne stai perdendo di cose: conta che un mese dopo che te ne sei andato è nato Bruno e tu avevi promesso che m’avresti dato una mano, perché era previsto nascesse a Ferragosto. Ho scritto un libro di cui ti avrei chiesto la prefazione. E tu me l’avresti consegnata l’ultimo giorno. Ma ti sarebbe piaciuto.
Dopo due anni, no, non te l’ho perdonata. E non mi sono perdonato neanche io. Sono pigro come allora, dovremmo prendere in mano le tue cose e farle diventare belle come sapevi tu, ma per un Picchio ce ne vogliono venti di noi, la tua energia, la tua intelligenza, la tua voglia ce le siamo sempre sognate.
Fa sempre male, come in quei giorni. Ti vorrei raccontare di come Stefano Fresi mi ha portato al tuo funerale – non sono potuto venire -, ti commuoveresti anche tu. Di come per te, con te, su di te, sta nascendo una cosa meravigliosa, da uno che non ti conosceva ma a cui manchi e dal compagno di scuola, amico di sempre Alessio Maria Federici. Vorrei tanto raccontarlo a te e tutti, ma tocca aspettare. Ti piacerà.
Quelli bravi mi dicono che per chi non ti conosceva, bisognerebbe almeno ricordare i tuoi film. Ed è giusto, perché su Google quello devono cercare di te. Nel podcast di Malcom Pagani Dicono di te (prodotto da Tenderstories e Chora Media) la seconda puntata è dedicata a Marco Risi. Che ha raccontato che il figlio Tano (peraltro fondatore della mitica Nash Arpetta, la società che produce le sciarpe “da calcio” dei licei romani) dice dei suoi film “il cult è L’ultimo capodanno, il più famoso è Mery per sempre, ma il più bello è Fortapasc“. E ha ragione, perché in quel film hai messo tutto, hai voluto mostrare, come fece in quella Coppa Campioni Best, in un solo film, chi fossi. Perché ne valeva la pena, perché quel ragazzo rappresentava il tuo ideale di abnegazione a un’idea e di onestà intellettuale e morale e anche forse di incoscienza. Quando mi manchi troppo, te lo confesso, ti riguardo là. Dove ti concedevi il lusso della tenerezza, della fragilità dolce (e un po’ paracula, perché poi un po’ lo eri sempre).
Facendo però il gioco di Tano Risi, diciamo che il tuo cult è Santa Maradona, il tuo più famoso (oggi, non allora) è Smetto quando voglio, il più bello è Fortapasc. Mi rimangono fuori le pennellate tue, quasi mai da protagonista: il prete di Asini, Mundo Civilizado, la scena in bicicletta più bella del cinema in A/R Andata+Ritorno (quanto t’ha capito Marco Ponti, che in Una vita spericolata chiama il tuo personaggio Bartolomeo Vanzetti in una doppia citazione carpiata meravigliosa), l’irresistibile La kryptonite nella borsa, i primi minuti di Easy, A Tor Bella Monaca non piove mai dove dimostri che non hai perso neanche un po’ di smalto, Una relazione (dormo con quella maglietta), Fortuna.
Vorrei avere i tuoi consigli, la tua rabbia sempre giovane, i tuoi pugni in tasca, la capacità di indignarti sempre e comunque, la tua capacità di tenermi sulla corda, di non farmi sentire comodo, di aver voglia di essere migliore per quelle rare volte in cui intuirti un po’ orgoglioso di me. Vorrei, che ne so, prendere un aereo, metterti una telecamera in mano e fare un documentario insieme a te sullo sciopero degli attori a Hollywood.
Ovunque tu sia, Picchio, sorridi. Che quando lo facevi, illuminavi tutto. Succedeva raramente, ma ce lo facevamo bastare.
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