Liliana Cavani: “Il cinema ti obbliga a pensare. È come una tela. Si fa scena dopo scena”

La regista è stata celebrata a Venezia con il Leone d’oro alla carriera e con il premio Fiesole ai Maestri del Cinema. Dal suo omaggio a Carlo Rovelli alle memorie indimenticabili: le lacrime di Papa Wojtyla, l’amicizia con Mickey Rourke e Charlotte Rampling. L'intervista con THR Roma

“Il cinema è come una tela: si fa giorno per giorno, scena dopo scena”. La voce di Liliana Cavani è gentile ma precisa. Non fa sconti. Seduta sul divano si lascia andare a qualche risata e a leggere inflessioni emiliane. Lo studio della sua casa romana – dalle cui finestre s’intravede il Tevere – è ricco di oggetti che raccontano una storia. La sua. Un volume illustrato su John Lennon – “Era uno forte” – il Leone d’oro vinto nel 1965 per Philippe Pétain: Processo a Vichy, una foto di Charlotte Rampling e Mickey Rourke. E poi libri, dipinti e premi ottenuti nel corso della sua vita professionale.

Che quest’anno è stata celebrata alla Mostra di Venezia con il Leone alla carriera (oltre ad essere la prima regista donna a ricevere il premio Fiesole ai Maestri del Cinema 2023). Un riconoscimento che la rende felice ma non la impressiona più di tanto. “Ho fatto sempre quello che mi piaceva, che mi attirava e mi andava di fare”. Dai documentari per la Rai ai tre film dedicati al Santo d’Assisi – “Il mio primo Francesco è quello a cui sono più legata” ha dichiarato di recente – passando per Il portiere di notte, Al di là del bene e del male o Il gioco di Ripley. Fino a L’ordine del tempo, ultima pellicola ispirata all’omonimo saggio del fisico Carlo Rovelli, presentato fuori concorso al Lido.

Liliana Cavani alla Mostra del Cinema di Venezia

Liliana Cavani alla Mostra del Cinema di Venezia

Cos’è successo quando ha saputo che avrebbe ricevuto il Leone d’ora alla carriera?

Hanno cominciato a telefonarmi delle persone a casa. È stata una cosa molto bella. Da Venezia mi sono venute sempre delle notizie simpatiche.

Ad esempio?

Nel 1965 con Philippe Pétain: Processo a Vichy vinsi il Leone d’oro per il documentario. Non sono neanche andata a ritirarlo. Ero al mare, stavo così bene! E avevo anche un movimento sentimentale interessante. E chi si è mosso? (ride, ndr).

Nel 2009 fu in giuria a Venezia, come andò?

È stato molto bello. Ho visto film di vario tipo, molti dei quali non sono neanche usciti. Film stranieri, abbastanza complessi, non molto spettacolari. In giuria ognuno aveva le proprie idee. Io volevo far vincere Baarìa di Giuseppe Tornatore ma non ho raccolto il favore degli altri. Sandrine Bonnaire era d’accordo, però poi difese un film francese. Quello di Tornatore per me era il film più interessante, anche il più professionale e più bello. Non siamo riusciti a farlo vincere. Peccato.

A quel punto come si trova il compromesso?

Si vota e chi ha più voti, vince. È una cosa anche molto semplice. In un certo senso si tratta di un dibattito tra culture, un incontro. E ognuno probabilmente è un patriota. Vinse Lebanon di Samuel Maoz. Un film su una battaglia in Israele che si svolgeva tutto dentro un carro armato. E quindi c’era anche poca soddisfazione spettacolare. Il film era serio, quasi un’avventura nel suo genere.

Lei ha lavorato con grandi attori internazionali. Che ricordi conserva?

Quando Charlotte Rampling ha saputo che volevo fare un film con Mickey Rourke mi ha chiamata per dirmi che non dovevo dare retta alle bugie che mi avrebbero detto su di lui. È una persona meravigliosa, straordinaria, umana, bellissima. Ci sono tre personaggi nel mio cinema: Lou Castel, Pierre Clémenti e Mickey Rourke. Non puoi fare Francesco con uno che non sia bello d’animo. Chi poteva fare il personaggio de I cannibali? Solo Pierre Clémenti. Sono persone la cui patria è il mondo, i loro amici gli uomini e le donne non violenti. Che hanno dato tanti agli altri e non si sono arricchiti.

Liliana Cavani

Liliana Cavani

Nel 1966 porta il suo primo Francesco a Venezia.

Il film non era in concorso, lo proiettavano perché era piaciuto ad alcuni critici che erano rimasti sorpresi. Francesco ha avuto successo, ne hanno parlato bene anche i giornali cattolici. I comunisti non tanto. Forse non mi avevano perdonato Età di Stalin dove affrontai anche le cose spiacevoli, quello che era successo in determinati momenti. Se racconti la Storia e trovi delle pagine molto sgradevoli c’è sempre un gruppo per il quale invece tutto deve essere bello. La Storia è molto importante. Se fossi il ministro della cultura ed istruzione aumenterei le ore dedicate a scuola per capire perché spesso cadiamo negli stessi errori.

Nel 1968 fu la volta di Galileo, in concorso. In quegli stessi giorni c’era la repressione sovietica della primavera di Praga. Lei avrebbe voluto pronunciare un discorso a favore della lotta del popolo praghese contro l’invasore russo. Cosa accadde?

Me l’impedirono.

E secondo lei perché?

Perché era una cosa che spiaceva al PCI. Nel 1966 ho portato il primo Francesco a Praga dove c’era stata da poco la rivoluzione. Si erano liberati. Hanno vissuto due anni di libertà. Mi invitarono e andai in due o tre città. C’era anche il giovane capo della tv. Quando sono tornata a Venezia con Galileo, tra l’altro buttato fuori dalla Rai, chiesi di poter dire qualcosa ai giovani di Praga visto che stavano arrivando i carri armati russi. Io andavo in giro alla Mostra a dire: “Vogliamo mandare un bigliettino, un saluto, dire ‘Siamo con voi’?”. C’era un regista che mi vede lì a girare per la Mostra e mi disse: “A te non te la do una mano”. Gli risposi: “E chi se ne frega!”. E questo perché avevo presentato Galileo. Ma il mio Galileo meritava di esser lì perché era educativo. Non avevo alle spalle un partito.

Eppure qualcosa negli anni è cambiato. Nel 2022 il presidente ucraino Zelensky è intervenuto con un video messaggio alla Mostra del Cinema facendo appello al mondo del cinema.

Sì, perché non esiste più un partito così dipendente da un altro, con quell’assoggettamento all’Unione Sovietica. Appena è caduta hanno voluto vedere tutti i miei film. E sono andata in Russia, a Mosca. All’epoca c’era Michail Gorbaciov al potere. Sulla strada principale proiettavano Francesco, Al di là del bene e del male e Il portiere di notte. C’erano i critici russi che erano stupefatti perché da loro fino a quel momento erano arrivate solo le commedie e i film con Alberto Sordi. Mi chiesero anche di fare la presidente del festival di Sochi.

E come è andata?

È un altro mondo (ride, ndr). Abbiamo fatto qualche riunione anche nella dacia di Stalin. Era bellissima. È stato molto bello. Ho incontrato i membri della casa degli intellettuali. Ho incontrato Giovanni Grazzini del Messaggero. I giornalisti erano tutti nel grande albergo vicino alla Piazza Rossa e mentre io ero con i nuovi intellettuali russi. Ci siamo visti e mi ha detto: “Liliana ma che ci fai qui?”. Era tutto un mondo che stava cambiando, aprendosi.

È vero che nel 1990 incontrò Papa Wojtyla e gli fece vedere in privato il suo secondo Francesco?

Non lo dimenticherò mai. Eravamo seduti su due poltrone vicine. C’erano due o tre monache, Carlo Fuscagni che all’epoca dirigeva Rai Uno e che era tutto gasato perché eravamo lì con il Papa, e il cardinale Dziwiz. Wojtyla ogni tanto piangeva e mi avvicinava così tanto a sé che mi ha bagnato tutta la faccia. E alla fine del film mi diede un abbraccio.

Che emozione è stata per lei?

Intanto ho capito che stavo vicino a un uomo bello dentro, capace di commuoversi. Un uomo che ha mantenuto la sua normalità, che non è entrato nell’ingranaggio.

Una scena dal film L'Ordine del Tempo di Liliana Cavani

Una scena dal film L’Ordine del Tempo di Liliana Cavani

Avete parlato solo del film?

Beh, lui me ne ha parlato tutto il tempo. Era entusiasta. C’è una foto di noi due insieme. Mia madre, con tutto che non era credente, l’ha messa in cornice (ride, ndr).

Il suo è stato un cinema anticipatore anche nel racconto della violenza sulle donne.

La media va dai 120 ai 150 omicidi l’anno. È una cosa molto grave. C’è un’educazione ancora in parte vigente per cui la donna vale meno dell’uomo, è qui per servire, fare i figli, tenere in ordine la casa. È allucinante che questo pensiero sia durato così tanto. E quanto spreco di intelligenza. Ho realizzato La donna nella resistenza e ho voluto avere le testimonianze di quelle che hanno combattuto. Il diritto al voto l’ottengono nel 1943, ma il loro contributo lo danno nel 1940. Non erano neanche considerate cittadine, come il gatto e il cane.

Non appoggiarono quel documentario come dovuto, perché forse sentivano di non avere capito il merito della donna. È circolato poco. Eppure l’avrebbero dovuto trasmettere da mattina alla sera se erano interessati alle donne. Ma, insomma, errori se ne fanno tanti. Per fortuna i futuri uomini avranno sempre meno fatiche nel lavorare quindi i loro muscoli non varranno niente. Dalle mie parti le donne hanno sempre lavorato come gli uomini senza avere i loro muscoli.

I suoi film furono spesso sotto scacco della censura.

Il portiere di notte venne vietato ai minori di 18 anni. Ma questo è niente. Lo ritiravano continuamente. Mi dissero che lo vietavano perché c’era la scena di un amplesso in cui il personaggio femminile sta sopra. Risposi: “Beh, forse capita”.

Con Dove siete? Io sono qui ha affrontato un’altra tematica molto poco battuta.

Quel film dovrebbe andare nelle scuole. Per me è stata una rivelazione sul mondo dei sordi che andrebbe conosciuto. È un film che mi spiace tanto non venga visto. Sto cercando di comprarlo proprio per vedere come si può fare a riproporlo. Crediamo che siano una comunità esigua, in realtà sono un numero importante. Anni fa partecipai ad un convegno a Pesaro. E lì ho scoperto che quando sono tutti insieme è pieno di voci, solo che sono tutte guidate in un’altra maniera. C’era una tale vivacità. E c’è della disattenzione nei riguardi di certe tematiche.

Se potesse scegliere uno solo nei suoi film da mettere in una capsula del tempo che venga aperta tra cento anni, quale sarebbe?

Nessuno dei miei film.

E quale allora?

L’oro di Napoli di Vittorio De Sica.

Perché?

È un film bello, sincero. Dove gli umani ci sono tutti. Quello è il cinema. Non è un polpettone. Che a volte anche io posso aver fatto (ride, ndr).

Liliana Cavani

Liliana Cavani sul red carpet di Venezia 80

Lei va ancora al cinema?

Sì, perché è ancora una realtà dove ti senti a tuo agio. Ti obbliga a pensare. Vedere un film a casa, invece, è in qualche modo un rinunciare a dei viaggi dell’intelligenza, della curiosità, del desiderio, della fantasia. Mi piace vedere la televisione, i fatti del giorno, i telegiornali, i documentari, le gare di canto come Sanremo. Ma il cinema è una forma di racconto che è stata accolta dalla gente nell’altro secolo con entusiasmo ed ha avuto sempre più successo. Mia madre mi portava al cinema da quando avevo tre anni la domenica pomeriggio.

Com’erano le sale all’epoca?

A Carpi, dove sono nata, il cinema aveva quattro sale, due grandi e due più piccole. Non dimenticherò mai un film su Beethoven. Mia madre si era annoiata tantissimo (ride, ndr). Ricordo ancora alcune immagini. Il cinema è stata una gran cosa. E siccome alcuni film non arrivano a Carpi, penso a quelli di Ingmar Bergman, Robert Bresson e Carl Theodor Dreyer, e questo era seccante, con un gruppetto dell’università andavamo a Modena o a Bologna in tre o quattro a prendere all’agenzia dei film certi pizzoni pazzeschi e li portavamo a Carpi. C’era una struttura dei preti con un proiettore e ci davano la possibilità di vedere i film. Spargevamo la voce perché partecipassero altri dato che si pagava. Erano film che non circolavano nei paesi con 60 mila abitanti.

Lei crede di aver avuto dei grandi maestri?

Beh sì. Amavo molto proprio Bergman, Bresson e Dreyer. De Sica di sicuro.

E crede di essere stata per qualcuno una grande maestra?

Non mi sono mai posta il problema. Credo che mi abbia aiutato in questo proprio lavorare ai documentari. È un lavoro che devi affrontare seriamente, in cui se non hai letto i libri giusti, ti devi dare da fare per leggerli. Diventa un lavoro artigianale. Tornando all’apertura dei lager, certe sere dovevamo andare al bar per tirarci su. Guardare quei filmati ti obbligava a metterti in discussione. Il documentario fu tramesso sul secondo canale, quello culturale. Il direttore della Rai, Ettore Bernabei, voleva darlo sul primo perché c’erano 4 milioni di spettatori. L’ambasciata tedesca fece sapere di non gradire. E lui, evidentemente, tirato da una parte o dall’altra, non lo fece.

Tra i premi ricevuto ce n’è uno che le ha aperto nuove opportunità?

Il film che mi ha dato più notorietà è stato Il portiere di notte. Un film che non hanno premiato nei festival, ma che il pubblico ha premiato. Ancora oggi lo proiettano il giro per il mondo, fino in Giappone. Ci sono due registi che ci vogliono fare un documentario, vediamo come finirà.

Una scena dal film L'Ordine del Tempo di Liliana Cavani

Una scena dal film L’Ordine del Tempo di Liliana Cavani

Com’è stata la reazione negli altri paesi?

Una reazione tragica l’ho vista solo quando ci fu la prima del film a Vienna. Una decisione della distribuzione, perché l’ambiente non era tedesco ma austriaco. Fecero un errore: Hitler era austriaco. L’accoglienza fu gelida. E non solo. Si alzò il responsabile della tv per dire che i lager non erano come li avevo mostrati. Risposi che probabilmente aveva ragione, perché lui di sicuro c’era stato e capivo da che parte stava.

Una reazione positiva, invece?

Curiosamente, nel 2019 hanno dato a Charlotte Rampling il premio alla carriera alla Berlinale e avrebbero proiettato Il portiere di notte. Charlotte ha voluto che fossi io a consegnarglielo. L’organizzazione temeva che dopo la proiezione del film fischiassero perché il film è forte e i tedeschi non ci fanno una bella figura. Ci dissero che sarebbe stato meglio uscire dalla sala appena il film finiva prima si fossero accese le luci in sala. Invece a film terminato quando io e Charlotte ci muovemmo per fuggire dalla sala temendo i fischi, il pubblico si alzò in piedi con grande partecipazione. Tutti girati verso di noi ad applaudire come matti. C’è da dire che le generazioni cambiano e quindi la Storia uno l’affronta anche con più intelligenza che con emozioni primitive.

E oltreoceano come andò?

L’uscita negli Stati Uniti è stata fatta alla grande. Jo Levine della AVCO Embassy che distribuiva il film ha avuto intelligenza e coraggio. Appena arrivata a New York per il lancio del film mi ha mostrato il New York Times: due grandi pagine sul film, una con le critiche positive e una con quelle negative, feroci alcune. Rimasi sconcertata. A Londra invece ci fu entusiasmo e rispetto. A Parigi ci fu la prima e diventò una specie di evento cinematografico tra positivi e negativi. Mi accolsero nella redazione di Le Monde, dove avevano apprezzato molto il film, per una settimana per rispondere attraverso il giornale alle critiche più balorde.

Non era la prima volta che raccontava il nazismo.

Non ho realizzato Il portiere di notte per caso. Nel 1962 ho fatto per la RAI quattro puntate di storia sul Terzo Reich. Premetto che la Seconda Guerra Mondiale è stata la più filmata dagli alleati e io feci arrivare dalla Biblioteca del Congresso americana e dalla Pathé di Parigi una enorme quantità di filmati sulla guerra. Dovetti affrontare anche l’apertura dei lager. Fu un’esperienza sconvolgente per me e per Ettore Salvi, il tecnico del montaggio. Eravamo allibiti. Ci siamo recati al bar tante volte per interrompere l’effetto di certe visioni che superavano ogni fantasia sull’orrore. Fai davvero fatica a credere a certi fatti, ma se li vedi? Il film è nato da quel ricordo? Probabile. Talvolta c’è necessità di indagare su come possiamo essere nei panni di una vittima o di un carnefice? Forse. Di sicuro è necessario “non dimenticare” e pensare a come siamo fatti noi umani.

Liliana Cavani

Liliana Cavani

Del suo percorso professionale cos’è che la rende più orgogliosa?

Orgogliosa? (ride, ndr). Non sono così, non ci penso. Ho fatto sempre quello che mi piaceva, che mi attirava e mi andava di fare. Avrei potuto diventare una dirigente Rai come quelli che hanno fatto il concorso con me. Io invece ho voluto star fuori. Perché se restavo lì sarei finita a fare i programmi dei bambini. Quella era la prospettiva per le donne. Io volevo fare il cinema. Mi dissero: “Ma qui cinema non se ne fa”. E infatti il primo film che produsse la Rai fu Francesco, fu anche il mio primo film grazie ad Angelo Guglielmi.

Signora Cavani, qual è lo scopo del cinema?

Io adoravo le favole. Mia madre me le raccontava. E anche io ho raccontato delle storie. Credo che mostrare la storia recente sia stato, oltre che fondamentalmente, anche uno scopo. Con La casa in Italia, censuratissima, ho visto il mio paese da Torino alla Sicilia. Io che non ero mai andata oltre Roma. A Napoli c’erano i bambini che giocavano anche senza mutandine, a Matera e le pecore dentro alle grotte come insieme alle famiglie. Il cinema racconta il mondo.

Si stupisce ancora quando è sul set?

Sì, mi piace perché il cinema è un lavoro che si fa veramente come una tela, giorno per giorno, scena dopo scena. È bello anche perché sono belle le persone del cinema. Ho visto troupe, piccole e grandi, che si interessano e partecipano. È un lavoro creativo, partecipativo. Si crea un amalgama, come l’equipaggio dei bastimenti.

Il suo ultimo film, L’ordine del tempo, è basato sul saggio omonimo di Carlo Rovelli. Perché questa storia?

Mi ha sempre interessato sapere cosa c’è in cielo. Mi ha sempre interessato conoscere un po’ l’universo. Però poi non ho fatto studi scientifici. La storia umana è sempre stata accompagnata da ricercatori. Ho fatto lettere antiche e le prime indagini, i primi a domandarsi chi siamo, dove andiamo e cosa c’è sopra di noi, sono stati i greci nel VI secolo prima di Cristo. C’è sempre stata questa questione per gli uomini. Non c’era solo il problema di sfamarsi, ma anche quello di sapere. Altrimenti non ci sarebbe stata la scienza.

Lei i suoi film li ha fatto per se stessa o per il pubblico?

Siamo sinceri. Un film, in primo luogo, lo fai per te stesso. Perché lo racconti a te sperando però che ci sono tante persone che ti somigliano.

Parlando sempre di tempo, c’è qualcosa della sua vita professionale che avrebbe voluto cambiare o pensa che il percorso fatto sia stato giusto così?

Non posso tornare indietro, quindi è una domanda che non mi pongo. Non posso correggere nulla.

L’articolo originale è stato pubblicato sul magazine The Hollywood Reporter Roma di agosto.