Il 4 gennaio si comincia già con la proposta di film-remake nella loro versione italiana, opere che si vede lontano un miglio essere tratte da storie masticate e digerite, mentre si cerca di dare loro rinnovata linfa attraverso l’adattamento a un tessuto sociale e culturale – anche intrattenitivo – tutto nuovo. La pellicola è 50 km all’ora, la trama prende dal tedesco 25 km/h di Markus Goller, e al panorama germanico vengono sostituiti i colli della pianura emiliana che si perdono a vista d’occhio.
I protagonisti sono due fratelli, il serioso e lo scapestrato. In verità è più corretto dire colui che è rimasto e colui che se ne è andato. Due uomini distinti e diversi nelle personalità, così come sulle idee della loro famiglia. A farli rincontrare è la morte del padre, che come ultimo desiderio chiede al figlio con cui non parla da metà della sua vita di poter spargere le proprie ceneri sulla tomba della defunta moglie.
In questa contrapposizione di personalità vediamo Fabio De Luigi, alla terza regia dopo Tiramisù (2016) e Tre di troppo (2023), e Stefano Accorsi, che gambe in spalla e motorini di ritorno dalle memorie di infanzia si dirigono verso un viaggio inaspettato, riversandosi addosso tutto ciò che non avevano avuto il coraggio di dirsi (o di fare) in tutti quegli anni.
La struttura del film, in questo, è molto classica. Fabio De Luigi, alla sceneggiatura insieme a Giovanni Bognetti, ha la fortuna del canovaccio su cui costruire gli episodi di un’avventura molto semplice, equilibrata, che a volte però fa cilecca.
50 km all’ora e quel saper piangere che non è mai una debolezza
Dal punto di vista della regia, 50 km all’ora ne è quasi privo, assente, non ha il guizzo dell’occhio del cineasta, bensì da esecutore che, almeno, sa come descrivere e accarezzare i personaggi. Una mancanza di visione registica che rischia di riversarsi anche sulle interpretazioni e le interazioni tra gli attori della pellicola, su cui però De Luigi riesce ad adoperare in maniera più misurata.
Alle trovate poco irriverenti di alcune delle tappe della storia, contrappone una caratterizzazione dei personaggi che vede nel suo Rocco una sensibilità che ci dice molto sulle insicurezze e le fragilità maschili. E non perché il protagonista venga ripreso o sbeffeggiato dal film per la sua tenerezza, bensì ne riconosce il valore e l’incomprensione di un mondo che trova ancora strano che un uomo sappia (e voglia) piangere. Ciò che in fondo capirà anche il fratello Guido, il più spavaldo Accorsi. Forse a tratti eccessivo nella recitazione, ma che trova del buono nella differenza e conseguente chimica con De Luigi, trovandosi e completandosi nel mezzo.
Un film road movie che ha superato il periodo delle drammatiche alluvioni in Emilia Romagna, che non ha demorso nel portarsi avanti fino alla fine delle sue riprese, e il cui risultato è altalenante come il rapporto tra i due fratelli. Ma della finezza emotiva di Fabio de Luigi ce ne ricorderemo, sperando di rivederla.
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