Fra pochi giorni un lungo applauso riempirà le strade di Palmi. Sarà quello della troupe dei Manetti Bros che dopo i tre Diabolik ha cercato e trovato qualcosa che fosse il più lontano possibile dalla saga kolossal fondata su una delle proprietà intellettuali più ambite (da decenni) e solide del mondo dei fumetti italiano. Il film, che ha prevalentemente visto come base la cittadina calabrese (con fughe dovute al “calciomercato” a Parigi e Milano), è U.S. Palmese, un progetto atipico per i due fratelli (produce Mompracem con Rai Cinema, il sostegno della Calabria Film Commission e il patrocinio della Lega Nazionale Dilettanti), legato alle loro radici – la città ha dato i natali alla madre ed è stata la sede delle loro vacanze familiari per anni – e a un genere che finora non avevano affrontato così direttamente, il romanzo di formazione intrecciato al feel good movie. Con il calcio come ingrediente principale, una delle maledizioni del grande schermo. Sul set poteva essere invitato solo chi ne fa una ragione di vita, come professionista e come persona.
“Questo film nasce – ci raccontano – prima ancora che potessimo solo immaginare di fare cinema. In un’osteria, che non c’è più ma noi abbiamo ricostruito identica, vicino allo stadio di Palmi, in cui noi entriamo per comprare un gelato e due anziani raccontavano le gesta più o meno eroiche di un calciatore”. Stadio Giuseppe Lo Presti, e già questa è un film nel film: una lapide sulle mura dell’impianto ricorda questo partigiano medaglia d’oro fucilato alle Fosse Ardeatine. “Noi ricordandoci quel dialogo anni dopo, abbiamo pensato che potesse essere un ottimo soggetto. Probabilmente potremmo definirlo il nostro primo vero progetto”. Sono a loro agio questi due cineasti che hanno percorso ogni genere – cinecomic e musical, horror e thriller, fantascienza e la servilità neopoliziottesca (il mitico Ispettore Coliandro), passando persino per Il commissario Rex – e si ritrovano in un racconto fatto di calcio, campioni tutti geni, sregolatezza, vizi e buoni sentimenti, ma sempre con la loro capacità di condirlo con un neorealismo magico e ironico, mai incline al buonismo ma a una verità che sappia raccontare la brava gente nelle sue fragilità e nelle sue bellezze. Il tutto nel luogo delle loro estati, fatte di immaginazioni e risate.
I Manetti Bros tornano a casa
Sono a casa e si vede, sul set sono concentrati e allo stesso tempo rilassati, tirano fuori smartphone in cui hanno l’ansia di anticipare a chi visita il set cosa nasconde questa storia che nella sua linearità cela diversi piani di lettura. “Non vogliamo che sia una storia banale di caduta e redenzione, e infatti a metà del film il giovanissimo campione Etienne Morville (il giovane attore Blaise Alfonso) prende una decisione molto realistica ma poco fiabesca. Ci piace l’idea di una storia che abbia dei contorni di ruvida dolcezza, come la trovata (della) finale, ma rimanendo in una situazione in cui non si prende in giro lo spettatore”. Quasi si commuovono quando raccontano uno dei momenti più potenti del film. Cosìi, rubando ai registi ma anche all’entusiasmo degli attori, ti godi i sottotesti e le sottotrame, come quella della figlia bellissima e anticonformista (Giulia Maenza) del capo carismatico della comunità (Rocco Papaleo) che ha permesso di realizzare il sogno di portare una star del calcio a giocare a Palmi, dal PSG, con una colletta epica. “Il PSG deve stare attento – scherzano Antonio e Marco – all’inizio ci avevano promesso e permesso sia l’utilizzo dei colori sociali e delle maglie, sia dello stadio. Poi l’allontanamento di Leonardo (direttore generale dei parigini e già campione in campo del Milan, oltre che marito della conduttrice Sky Anna Billò – ndr) ha rimesso tutto in discussione: e infatti non hanno vinto la Champions League neanche quest’anno!”. Alludono i due alla fortuna che il film ha portato alla vera Palmese, protagonista di playoff da romanzo d’avventura. Tre mitiche partite e una finale finita ai rigori dopo un rocambolesco 3-3 li ha fatti volare in Eccellenza.
Tra regole bizantine che hanno portato un minorenne in porta (il terzo portiere), infortuni che hanno costretto alcuni a giocare fuori ruolo e una lotteria dei penalty finale da mondiali del 2006. Una storia che meriterebbe un documentario a parte (i Manetti hanno ripreso gran parte delle partite, va fatto!), con tanto di presidente vecchia maniera dai comportamenti eccentrici, soprattutto nei festeggiamenti, e metà della compagine che è finita nel film, perché i registi hanno preteso una competenza pallonara anche per le comparse e non solo per i comprimari.
Perché il calcio, come dice Arrigo Sacchi, è la più importante delle cose inutili e come il cinema è un gioco da prendere molto sul serio. E così mentre ci nascondiamo sul soppalco delle Officine Balena – un po’ pub, un po’ fumetteria, un po’ vintage shop (di locali così neanche nelle metropoli li trovi, vale la pena il viaggio da tregenda sotto il diluvio, aereo+macchina, già solo per la visita a questa tana che sembra costruita per i Manetti, l’altro ottimo motivo è il catering ruspante) – per spiare una delle scene finali, un brindisi a Don Vincenzo (Rocco Papaleo). Una scena in cui traspare non solo la bravura degli attori, ma anche il grado di complicità che si è creato nel cast. Un piccolo grande caos all’apparenza, in realtà perfettamente organizzato. Te ne rendi conto quando scorgi ogni angolo di questo locale sfruttato al meglio – compreso quello più lontano del soppalco diventato reparto costumi – o quando ti presentano professionalità che fino a pochi minuti prima non immaginavi neanche esistessero.
Il coach di palmese, un uomo apparentemente placido che è il terrore di tutti, perché è capace di capire se un accento, un’intonazione, persino un pensiero è declinato con le parole e la musicalità di dialetti altri, magari di paesi a pochi chilometri da Palmi. Sacrilegio. Papaleo, lucano, lo guarda intimorito, Massimo De Lorenzo che invece è di queste parti sembra averci ingaggiato una battaglia personale.
Poi c’è l’esperto – pare eserciti a Milano – di tagli di capelli di calciatori, che a occhio e croce con Blaise Afonso, un Balotelli sui generis, sembra aver fatto un ottimo lavoro. E poi ovviamente il vice allenatore della vera Palmese, per dare una consulenza calcistica di comprovata qualità. “A dir la verità – svela Aurora Calabresi, barista incantevole e un po’ punk – “il mio personaggio si veste così pure alle 8 del mattino!” – (bravissima a shakerare anche quando la macchina da presa è lontana, professionista vera) – nel trick più importante del bagaglio tecnico di Morville centra pure mio fratello Arturo”. Uno che ha fatto tutte le nazionali giovanili, che non si sa perché non sfrecci sulla fascia vestendo la maglia di una grande squadra e che ha vestito le casacche, tra le altre, di Livorno, Bologna, Cagliari, Amiens, Lecce e ora al Pisa. A lui si deve “la mossa Houdini (una sorta di doppia veronica “incrociata” che appunto nasconde la palla), l’ha inventata lui”. Lei con il palmese se l’è cavata alla grande. “Un gran culo, una mia cara amica è di Palmi. Mi ha messo in contatto tramite zoom con tutta la sua famiglia, finché non sono arrivata a Cristoforo, il nostro coach”. Siamo in notturna, le chiacchierate devono essere veloci, Marco dà indicazioni dal soppalco, Antonio macchina a spalla si infila ovunque, modificando le leggi della fisica sullo spazio. E in questa piccola cineisola fatta di divertimento e coincidenze, c’è anche lo sguardo acuminato di Lisa Da Couto Texeira – la wag di Etienne Morville (in realtà quella che sa rimettergli la testa a posto) – che ci racconta “come si lavori in modo meraviglioso con loro, sono sempre aperti a opinioni diverse, è un metodo molto diverso da quello francese. E poi il calcio è nel mio destino, mio fratello è un calciatore professionista”. Ride, poi confessa. “E giocherà nella Reggina il prossimo anno!”.
A sembrare avulsa dal calcio, nella vita e nel film, è Giulia Maenza, che a quella ragazza dark dietro il bancone è molto legata. “Un personaggio ruvido, a suo modo, che protegge il padre, Don Vincenzo, lo rimprovera se c’è bisogno e non subisce il fascino del campione, anzi gli dice che è finito in un luogo che ha una cultura e che deve rispettare. Concetta è la guardiana dell’anima di questo luogo, protegge le radici lei che in fondo è quella più emancipata e che dovrebbe più soffrire la provincia. Una ragazza complessa: ho un diario segreto in cui ho scritto la sua musica preferita, ciò che pensa, i segreti della vita che l’hanno resa così. Un personaggio lo costruisci con quello che nel film non racconti: vale soprattutto per me che ho iniziato con la moda, a 16 anni, e sono qui soprattutto per imparare. Perché amo sfilare, ma il cinema mi appaga molto di più. A proposito il suo colore preferito è il verde serpente”. Identico a quello che nelle maglie della Palmese si abbina con il nero (per gli appassionati, è molto simile alla divisa del Sassuolo).
Palmi, come ricordano i Manetti e Maenza, non è una provincia qualunque. Arte, archeologia, cultura qui convivono. I Manetti ci mostrano fieri la scena in cui hanno replicato “la festa del paese, la festa dei Giganti”. Grifone il Gigante nero che raffigura un truce Saraceno e, nelle sembianze di una bella e prosperosa popolana, Mata, la sua preda, rappresentano e ricordano allegoricamente la conquista della libertà del popolo calabrese dai Saraceni e Turchi che per secoli hanno devastato la Calabria. Eppure nella rappresentazione annuale di questa “battaglia” c’è invece un unione, un incontro, come se i palmitani avessero intuito l’inclusività ben prima che fosse un tema dell’agenda politica e sociale. Esattamente come Etienne con il popolo palmese, il loro rapporto inizia come uno scontro, una guerra in cui un gigante nero si comporta in modo predatorio per poi scoprire l’amore per quelle terre. Ci mostrano le foto della festa a cui hanno partecipato, poi la scena di come l’hanno ricreata, in un ping pong dell’immaginario che è come loro, poetico e romantico. Anche se sia questi due registi che Grifone e neanche Afonso lo ammetteranno mai. “Con Antonio e Marco – racconta Blaise – ci siamo incontrati a Parigi, abbiamo fatto un provino e diversi mesi dopo mi hanno scelto. Non sapevo cosa aspettarmi, ora sento di aver fatto una scelta decisiva per la mia carriera, sto imparando tanto”. In Francia e Belgio, l’attore come calciatore è arrivato alla seconda divisione, nella formazione riserve. “Abbastanza per interpretare un calciatore al cinema, non di più!”. Sui riferimenti calcistici, scherza “Pogba, Neymar e Balotelli, ma non per il ruolo, per il look!”
E mentre interrompiamo una scena perché scoppiamo a ridere quando scopriamo che lo zampino di Luna Gualano e Emiliano Rubbi (i Manetti con Mompracem hanno prodotto il loro La guerra del Tiburtino Terzo) è marchiato dal nome geniale di uno dei personaggi – Peppe Reddocili, leggetelo come all’appello a scuola (soluzione per i più abili: RHCP) – ecco che Don Vincenzo, ieratico e sardonico, si avvicina. “Che sorpresa questi Manetti – esclama Rocco Papaleo – anche se mi hanno costretto, da lucano, a recitare in calabrese: è più difficile che farlo in inglese, spagnolo o francese! Ti fanno venir voglia di continuare a essere un attore che, dopo l’esordio alla regia, un po’ mi ero annoiato a farlo.
Rocco Papaleo, non è mai troppo tardi per una prima volta
Ultimamente però alcuni set mi hanno riacceso il desiderio di recitare, tra cui proprio U.S. Palmese. Forse proprio perché è un ruolo a suo modo difficile: quindi più mi metteranno alla prova i registi, più la mia vecchiaia sarà divertente”. Don Vincenzo, ci confessa, è “un contadino nerd appassionato di calcio che insegue l’utopia di portare a Palmi il nuovo Balotelli, il campioncino del PSG che sembra inarrivabile. Questo mi piace di lui, crede nell’impossibile, è un’idealista e un sognatore”. Sembra inseritissimo a Palmi, “sarà che mi hanno accolto con più affetto e stima di quanto meriti. Poi ho già la mia macelleria, il mio bar, mi sono ambientato. Ho capito cosa vuol dire essere palmitano, un po’ grazie al mio modo istintivo di stare in scena, un po’ grazie alla lingua che quando è diversa ti aiuta a essere altro da te, un po’ grazie al fatto che ho abitato davvero qua, non come straniero ma come locale. Alla fine nei miei personaggi, tutti, ci metto quel mix di ruvidezza e tenerezza che ho anche io, gli uomini che ho interpretato potrebbero essere amici. Non mi sono mai trasfigurato, non ho mai cambiato la voce se non per il Gatto del Pinocchio di Matteo Garrone, in cui avevo un trucco pesante e confesso che lì la tentazione di provare a mettermi alla prova con una trasformazione totale mi è venuta”. Però qui ha qualcosa di diverso in realtà, e lo sente anche lui. “In effetti spero che come ne Il grande spirito di Sergio Rubini, a tutt’ora credo il lungometraggio in cui ho dato il meglio, si senta che ho preso una strada un po’ differente. Un po’ come nel mio ultimo film da regista”. Scordato, in cui è un Sellers lucano depresso e acido, con un’autoironia feroce.
“Il set di U.S. Palmese è speciale, lo hai capito: non c’è mai stato un dissidio in queste settimane, raramente ho trovato tanta armonia e divertimento. Litigano solo loro due, i due fratelli registi, ma in realtà è un modo per rimanere sempre concentrati, pronti al confronto e al mettersi in discussione. A volte sembrano uscire da una sit-com, ma li adoro. Li adoriamo”. E sul calcio, grande amore, si scioglie. “Trovo poetici i gesti dei grandi campioni. Sono stato interista da giovane, poi mi sono ammalato di romanismo quando Totti fece il cucchiaio nella semifinale dell’Europeo del 2000, con talento e sfacciataggine. Mi conquistò, io che da ex calciatore, fino a vent’anni, ne avevo fatto una passione totale e che poi mi ero allontanato per il troppo business che aveva invaso quello sport. Ora speriamo solo che vada bene, che i film sul calcio spesso non riescono. Però la sforbiciata di Pelé in Fuga per la vittoria è entrata nella storia di due arti, è diventa iconica per il pallone e il grande schermo. E anche qui abbiamo discrete potenzialità”. Parola di Don Vincenzo.
Ormai è notte fonda, alle 6 l’aereo da Lamezia Terme decollerà su Roma. Sempre che un’alluvione non lo allaghi. L’aereo, l’aeroporto, pure il set. C’è tempo per chiacchierare con Pier Giorgio Bellocchio che ride degli scontri affettuosi con i Manetti, registi e coproduttori (ognuno pensa di fare la maggior parte del lavoro), si commuove per la dipartita precoce di Carlo Macchitella “non solo ci ha insegnato questo lavoro, ma era il nostro punto di equilibrio e valorizzava i pregi di ognuno di noi”, confessa che “produrre mi piace quanto se non più di recitare. Ho avuto la fortuna di togliermi molte soddisfazioni come interprete, ma questo lavoro mi ha reso indipendente: ora un ruolo lo prendo perché sento che è importante per me, non per necessità. Fosse anche mio padre Marco a propormelo”. Proprio con lui, con Il principe di Homburg e La Balia, “ho iniziato a produrre 30 anni fa, trovo che sia affascinante che il lavoro d’attore sia basato sull’attesa, cosa che non amo, mentre se il produttore aspetta, muore. Sono due ruoli più complementari di quanto si creda. Anche con i Manetti il rapporto affonda in un passato lontano, ai tempi della scuola, me li presentò lo sceneggiatore e regista Simone Paragnani. Poi vennero a Bobbio dove con papà facciamo un festival molto particolare, mi hanno chiamato come attore su Coliandro e abbiamo deciso di affrontare questa avventura produttiva e creativa insieme. In mezzo ho comunque coprodotto il loro esordio Torino Boys (1997). Era destino”. Si divide, Pier Giorgio tra il set de L’amica geniale come attore e quello dei Manetti. “Vengo appena posso, perché i loro set sono i migliori, rilassati e al contempo pieni di cose belle. Come posso perderli? Soprattutto qui dove ritrovano la spensieratezza pop che li rende unici, U.S. Palmese è un’opera che può essere la loro opera più matura in tutta la loro immaturità dopo la sfida fuori dalla loro comfort zone rappresentata da Diabolik, per dimensioni del film e struttura”.
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