“Ultimamente ho amato molto Talk to Me. E sono fan di Ari Aster. Ci vedo un filo rosso col cinema di Kiyoshi Kurosaw, in cui ritrovo l’imprevisto, l’inaspettato”. Trentenne di Corato, trasferitosi dalla Puglia a Roma, Paolo Strippoli ha conquistato lo streaming con A Classic Horror Story, originale Netflix co-diretto con Robert De Feo, e ha poi debuttato in solitaria alla regia con Piove – anche questo destinato alle piattaforme dopo il passaggio al cinema nel 2022, finendo dal 1 dicembre su Mubi Italia.
E la sorpresa di cui parla, anche lui l’ha già dimostrata. Sia col film del 2021, in cui ha rivisitato i codici del genere horror e, insieme, li ha ribaltati; sia con l’opera successiva in cui i drammi familiari che metteva in scena trovano risoluzione nella sconfitta dei (propri) mostri. Ora Strippoli è al lavoro sul suo terzo film, “mystery nelle lande del nord in cui nell’oscurità si troverà un’insolita tenerezza”. Quasi fosse una fiaba nera. Un po’ come, ad esempio, Biancaneve.
Se dovesse guardare indietro, qual è stato il momento in cui ha capito che voleva spaventare la gente?
Quando vidi per la prima volta Biancaneve e i sette nani, il classico della Disney del 1937. È la mia vera formazione horror. Quando ho visto apparire la strega cattiva nella sua incarnazione da anziana, con il naso grosso e la schiena curva, mostrata alla finestra con uno stacco violentissimo di montaggio, ho capito il potere del saper spaventare. E quanto, avere paura, a volte possa fare bene. Lo spavento è come uno shock termico. Lo dico da fan delle saune, quando dopo che il tuo corpo si è ben scaldato ti immergi in una doccia d’acqua gelida per far ripartire la circolazione. C’è uno sbalzo di pressione, è come rinascere. Per me spaventare ha lo stesso valore. Riaccende, risveglia. È una sensazione piacevole. E dopo uno spavento ci si sente quasi coraggiosi, perché lo si è superato.
E quando ha reso questa sua ispirazione concreta? Quando ha capito che che avrebbe voluto perseguire la strada dell’horror?
Sono un grande fan di Kiyoshi Kurosawa. E lo sono anche di Wes Craven, ora come a tredici anni. Nel 2006 aspettavo il suo nuovo film, Pulse, remake di Kairo di Kurosawa che aveva curato come sceneggiatore e produttore esecutivo. Era un giorno d’estate e fuori un cinema di provincia di Corato ho visto il poster di Pulse. Mi sembrava strano visto che il film era annunciato per settembre e ci trovavamo ancora a luglio. Quando entrai in sala mi aspettavo di vedere il remake, invece mi trovai di fronte a un’opera esistenzialista e buia. Kairo mi fece molto male, ma mi diede la possibilità di capire che c’era un tipo di cinema dell’orrore ancora inedito e che avrei voluto indagare.
Pensa dunque che nella sua carriera vedremo solamente film horror?
È una lente con cui mi piace guardare il reale, nonché le storie in generale. Poi sono aperto a qualsiasi opportunità. Ma l’horror che interessa a me non è mai duro e puro, uno stile che forse non ha nemmeno più senso di esistere. Col mio cinema spero di poter inquadrare una contemporaneità attraverso il filtro dell’orrore, utilizzandolo come fosse un mezzo, non il fine. Non faccio saltare lo spettatore dalle sedie, non è questo che mi dà soddisfazione. È questione di contaminazione.
Cercare di veicolare messaggi e temi nascondendoli sotto una maschera?
È come quando si somministra una pillola: si fa un rivestimento in zucchero così da mandarla giù. Questo è il genere. Fa bene allo spettatore, che non uscirà totalmente indifferente dalle storie in cui è entrato. Nessuno potrà mai convincermi che è impossibile raccontare qualcosa di importante, anche grazie all’intrattenimento.
E quali sono, per lei, questi temi importanti?
I rapporti familiari, soprattutto tra genitori e figli. In piccola scala sono ciò che rappresenta la società. Le famiglie sono un grande punto di partenza per l’horror, suscitano spesso un senso di perturbante, che è ciò che mi intriga. Mi piace quando qualcosa ha un’accezione il più rassicurante possibile, e viene poi incrinata dal sinistro.
È ciò che ha fatto con Piove.
Infatti è un progetto che ho amato molto. Piove è un mondo corale, dal casting fino alla messinscena. Mi ha scaldato il cuore vedere quanto il pubblico è riuscito ad arrivarne in profondità, aldilà dell’elemento horror. Forse la più grande soddisfazione me l’ha data una ragazza quando, dopo la proiezione al Sitges (Festival internazionale del cinema fantastico della Catalogna, nrd.), è uscita in lacrime. Mi ha commosso il suo riuscire a cogliere le intenzioni e i legami affettivi dietro la patina dell’orrore.
Quali barriere pensa di aver infranto con Piove?
Le barriere non si abbattono con un film solo. Bisogna non provare sfiducia nel cinema, men che meno in quello estremamente indipendente. Vedo Piove, semmai, come una pietra scagliata. L’unica maniera per fare in modo che si apri un varco nel panorama italiano, offrendo diversi titoli di qualità per il bene del pubblico e della nostra industria. Un cinema senza generi non è un cinema sano.
Come la fa sentire quando riconoscono in lei una delle figure che sta cercando di ridare dignità al genere in Italia?
Sono felice, ma l’obiettivo è solo fare bei film. Non posso prevedere come verranno gli altri, però possono ammettere con onestà che sto facendo ciò che mi piace, cercando di pormi con rispetto verso gli spettatori e cercando di fare qualcosa che anche loro possano gradire. Soprattutto facendolo con sincerità. Quando non sei sincero il pubblico se ne accorge.
Continuerà, come con Piove, a esplorare un horror che abbia componenti fantasy?
Amo molto la componente fantasy, ma sento una certa resistenza da parte degli spettatori italiani verso tutto ciò che trascende il realistico.
Sta dicendo che le piacerebbe andare oltreoceano? Magari prodotto proprio da Ari Aster?
Se me lo proponesse non mi tirerei indietro. Ma no, amo questo paese e so che ci sono le possibilità, con la storia giusta, di poter aprire anche qui un simile mercato. So anche che ho ancora molto da imparare. Prendo sempre più confidenza col linguaggio cinematografico e magari mi affido meno all’istinto come avrei fatto a vent’anni. Ma solo perché è inutile affrontare i mulini a vento. Voglio delle sfide vere.
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