Quasi trent’anni dopo L’odio di Mathieu Kassovitz, ragazzi giovanissimi, spesso di origine araba, continuano a morire in Francia in circostanze sospette – per non dire criminose – per mano della polizia. E il cinema, da allora, prosegue a raccontare le loro storie. Storie di rivolte, di esasperazione e di marginalità, che trasmettono la rabbia e l’esplosiva violenza di chi è vittima di un’ingiustizia e si ribella con ogni mezzo al sistema. Banlieue film: ormai è un genere.
Rientra parzialmente in questa categoria il lavoro d’esordio del franco marocchino Mehdi Fikri, 43 anni, After the Fire, passato con successo allo scorso Toronto Film Festival e applaudito in concorso alla Festa del Cinema di Roma.
Al cuore del film la storia “di una famiglia come tante – racconta Fikri a THR Roma – ispirata alle vicende vere di cinque famiglie delle banlieue francesi”: quella di Karim, un ragazzo di 25 anni dal passato turbolento, aggredito dalla polizia a Strasburgo e picchiato a morte (ma ufficialmente il decesso è per “epilessia”), e della famiglia che prova a difenderlo, puntualmente boicottata dalle forze dell’ordine.
Ex giornalista nato nella banlieue parigina “da madre bianca e padre marocchino, militanti del partito comunista”, Fikri sceglie un approccio particolare, che colloca il suo film più nell’area “del thriller giudiziario e poliziesco alla Sidney Lumet” che in quella di lavori come L’odio o Athena di Romain Gavras, “pilastri del cinema cui non intendo voltare le spalle”.
L’escalation della rivolta resta sullo sfondo, lasciando in primo piano il racconto dettagliatissimo di ciò che la morte violenta di Karim innesca all’interno del nucleo familiare. E cioè il dolore, il lutto, la frustrazione dei genitori e dei fratelli. Ma anche la pressione, il bisogno immediato di reagire: scegliere in 24 ore se seppellire o no il corpo, se fotografare col proprio cellulare il cadavere del ragazzo, se rilasciare una dichiarazione alla stampa, cosa dire. Se promuovere le rivolte, se chiedere di fermarle. Se lasciar perdere o farsi strumentalizzare.
“Se conosciamo alcune di queste storie e non altre, dipende anche dalla capacita dei familiari delle vittime di usare i mezzi di informazione, di sapere come si parla alla stampa. Non volevo necessariamente criticare i giornalisti, ma mostrare il ruolo che hanno in queste vicende. Quando facevo il reporter, mi contattò una famiglia che aveva perso il figlio in questo modo 18 mesi prima. Avevano tentato di elaborare il lutto, avevano seppellito corpo, lenito il doloro. Solo a quel punto hanno contattato i media. Ma il mio capo mi disse che era troppo tardi. La finestra temporale, per questi casi, è breve. E va sfruttata”.
A guidare la ricerca di verità è il personaggio di Malika, la sorella maggiore, che impara sulla sua pelle come muoversi, parlare e comportarsi in pubblico, per gestire una situazione che ha finito per devastare la sua vita apparentemente normale.
“All’inizio non sa come comportarsi, non conosce il lessico, i codici, le strategie. Lungo il tragitto cresce, matura, per arrivare infine a dire l’indicibile: che suo fratello è stato ucciso. C’è un detto in Francia: ‘i quartieri popolari sono i deserti della politica’. Io là dentro ho costruito me stesso e la mia identità e con questo film ho aggiunto un mattoncino alla lotta”.
Nel ruolo di Malika c’è Camélia Jordana, cantante e attrice francese 31enne, di origine algerina: “Sono nata nel sud della Francia e non ho mai vissuto in una banlieu – racconta l’attrice – ma conosco la rappresentazione canonica che ne ha fatto il cinema, cioè quella di quartieri abitati da persone ai margini, destinate a finire malissimo. In questo film invece c’è una famiglia normale, ma distrutta dalla tragedia: un modo diverso per parlare di politica”.
Già al lavoro sul suo prossimo progetto, “una storia sulle coppie miste”, Fikri difende il punto di vista”interno” scelto per raccontare le banlieue: “Gli intellettuali temono la povertà e per questo la trasformano in poesia. In Francia c’è questa retorica della povertà con cui, sinceramente, sono stufo di essere identificato. Nelle banlieue c’è anche uno spirito cameratesco, si vivono vite dense e intense, come quella della famiglia in cui sono cresciuto. Mia mamma è una professoressa, papà un militante di sinistra, e come ripetono sempre: ‘Abbiamo perso tante battaglie, ma abbiamo guadagnato il diritto di ricominciare a farle’. La depressione del popolo la si cura con la politica, non con i farmaci. Ed è fondamentale, soprattutto in quei luoghi, trasmettere questa consapevolezza. I miei genitori hanno tramandato a me e mia sorella i valori che hanno plasmato la nostra visione del mondo. Abbiamo la schiena dritta. E proprio così volevo raccontare i miei personaggi: belli e forti”.
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