(Questo articolo contiene spoiler su Anatomia di una caduta, Barbie e Povere creature!)
Cadere. Verbo intransitivo. “Spostarsi dall’alto verso il basso per effetto della forza di gravità e della spinta del proprio peso, quando venga a mancare il sostegno o l’equilibrio”, recita la definizione dell’Oxford Dictionary. E se si scorre la lista dei titoli candidati all’Oscar come miglior film ce ne sono tre che mettono al centro una caduta, fisica e simbolica, che funge da miccia per dare il via al racconto e compiere una rivoluzione. Anatomia di una caduta di Justine Triet, Barbie di Greta Gerwig e Povere creature! di Yorgos Lanthimos.
Tre pellicole che parlano di autodeterminazione femminile, tra le aule di un tribunale, le case perfette di Barbieland o la Londra vittoriana. Il film della regista francese, vera sorpresa delle nomination agli Academy Awards – che fa giustizia dopo la decisione della Francia di non candidare il suo titolo di punta per una presunta ripicca politica contro Triet – è il più esplicito dei tre fin dal titolo.
Anatomia di una caduta e la perdita di coordinate
La storia di una scrittrice con il volto di Sandra Hüller che vive con il marito Samuel – anche lui scrittore ma dalla carriera sospesa – e il figlio non vedente Daniel in un remoto chalet di montagna sulle Alpi francesi. Quando Samuel muore in circostanze misteriose cadendo nel vuoto, ritrovato riverso ai piedi della loro abitazione in una pozza di sangue mista a neve, la donna viene accusata di omicidio.
Il processo che la vede imputata, oltre a vivisezionare la loro relazione fatta di molte ombre, diventa anche il pretesto per “processarla” pubblicamente per quella che è la sua colpa più grande (non detta esplicitamente): essere, cioè, una professionista di successo che ha deciso di non abbandonare le sue ambizioni per istruire il figlio e prendersi cura della casa.
Due mansioni di cui si occupa, fino alla sua morte prematura e inaspettata, il marito. Questo mentre Sandra firma romanzi di successo ed è corteggiata dalla stampa. Un ribaltamento dei ruoli decretati da una società maschilista e patriarcale che, nonostante i discorsi progressisti, è ben lontana dall’essere la normalità. Ma, anche se il modello familiare raccontato da Justine Triet è più simile a una favola utopica che alla norma, è anche vero che sono sempre di più le donne che, come Sandra, raggiungono vette un tempo quasi esclusivamente relegate al sesso maschile.
La caduta del titolo è quindi anche quella dell’uomo che ha perso le coordinate e continua a precipitare, in una sorta di vortice infinito che ricorda i titoli di testa di Vertigo di Alfred Hitchcock e la sigla di Mad Men, senza riuscire ad aggrapparsi più a nulla perché non riconosce ciò che lo circonda.
Barbie, tra stereotipi e riappropriazione di sé
E poi c’è lei: Barbie stereotipo. Bellissima, biondissima e dalla vita perfetta che si ripete in una routine sempre uguale. La sveglia delicata, il sorriso smagliante, l’acqua della doccia alla giusta temperatura, il waffle cotto al punto giusto e il latte fresco. Per poi calarsi, volando delicatamente, dal tetto della sua casa fino alla sua macchina. Un rituale senza intoppi fino a quando la bambola con le fattezze di Margot Robbie non inizia a farsi delle domande esistenziali e a pensare alla sua morte.
Ecco allora che la sveglia è brusca, l’alito cattivo, l’acqua della doccia troppo fredda, il waffle bruciato e il latte scaduto. E quel volare delicato si tramuta in una caduta rovinosa. Per non parlare poi dei piedi piatti e della cellulite. La sua realtà da favola non esiste più. L’unica cosa da fare è lasciarsi Barbieland alle spalle e cercare la bambina che gioca con lei nel mondo reale. Ma Barbie trova una donna adulta, una madre in crisi che trasmette a lei tutte le sue preoccupazioni. Da Barbie stereotipo a Barbie depressa.
Ma Greta Gerwig e Noah Baumbach a questo punto della sceneggiatura se da un lato fanno scoprire a Ken le meraviglie del patriarcato, tutto cavalli, rispetto e ville Mojo Dojo, dall’altro regalano a Barbie la (dolorosa) consapevolezza di sé in quanto bambola che rappresenta tutto il femminile, in perenne equilibrio per il non essere sempre troppo o troppo poco. Da quella caduta inizia per la bambola di plastica un viaggio – simile a quello di Dorothy ne Il mago di Oz – per diventare una donna in carne ed ossa. Vagina inclusa. Simbolo di autodeterminazione e di riappropriazione di sé e del proprio corpo, libero da una scatola rettangolare che la mette in mostra, emblema dell’oggettificazione sessuale.
Povere creature! e la libertà sessuale
La stessa vagina, o meglio, vulva al centro della scoperta della gioia di Bella Baxter, corpo da donna e cervello da neonato, interpretata da un’eccezionale Emma Stone. La prima scena del film di Yorgons Lanthimos la vede, incinta e disperata, gettarsi da un ponte per essere trascinata da dottor Godwin Baxter, quasi morta, dalle rive del fiume fino al suo studio dove la riporta in vita facendola diventare madre e figlia di se stessa.
Quella caduta segna un prima e uno dopo. La sua vita e identità vengono spazzate via e lasciano il posto a quello che doveva essere un esperimento scientifico.
Ma al progredire delle sue capacità motorie e linguistiche, Bella scopre la libido e l’autoerotismo. E così esplora il sesso, il mondo, il suo corpo e una serie di uomini che vogliono imprigionarla, smorzarne l’appetito sessuale, possederla fisicamente e mentalmente, mettendola sotto lucchetto o provando a mutilare i suoi genitali per spegnere il suo fuoco interiore. Ma Bella non ci sta e di quel corpo fa ciò che vuole, anche metterlo in vendita per trenta franchi.
Quell’iniziale caduta nel vuoto si rivelerà essere l’inizio di un’avventura fatta di cavalcate furiose, filosofia, piacere fisico, rottura delle norme sociali e, proprio come Sandra e Barbie, di autodeterminazione.
Un cinema influenzato da ciò che lo circonda
Non è un caso se, specie per Barbie che per Povere creature!, in molti – spesso di sesso maschile – abbiano deriso o sminuito i film tacciandoli di essere pieni zeppi di luoghi comuni e di mostrare un sesso forte che poi tanto forte non è. Anzi.
Peccato che tutte e tre le protagoniste di questi film non facciano altro che chiedere uguaglianza – nella possibilità di realizzarsi professionalmente, di trovare la propria dimensione, di vivere la propria sessualità. Hanno una voce e un corpo. E li usano. Ma non per schiacciare l’altro – cioè l’uomo – nella sua totalità. Perché non c’è – o meglio, non dovrebbe esserci – maschile contro femminile. Barbieland diventa la casa, paritaria, di tutte le Barbie e tutti i Ken. Sandra riconquista la libertà. Così come Bella trova la sua vocazione e un uomo che vuole solo quello che anche lei desidera, senza costrizioni.
Sono film, non la vita vera. Ma quello che guardiamo avvolti dal buio in una sala cinematografica riflette le nostre esperienze e frustrazioni, i nostri desideri e conquiste. Il cinema è influenzato, da sempre, da ciò che lo circonda. Anatomia di una caduta, Barbie e Povere creature! rispondono, in maniera e con risultati diversi, a domande ed esigenze simili. Abbiamo bisogno tutti – uomini e donne – di queste storie. Così come abbiamo bisogno di Sandra, Barbie e Bella.
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