Un bravo detective parte sempre da un elenco. L’elenco degli indizi, l’elenco degli eventi, l’elenco dei sospettati. Perciò, ecco un elenco di ciò che, sorprendentemente, convince di Assassinio a Venezia, terzo film con protagonista l’Hercule Poirot di e con Kenneth Branagh, nato dalla penna di Agatha Christie.
Punto primo: il distacco dalle pellicole precedenti. Assassinio sull’Orient Express (2017) puntava sul ricco gruppo di attori famosi e sull’offerta di un giallo adatto al grande pubblico, convincendo a metà. Un intrattenimento modesto, insomma, ma azzeccato nonostante certe ingenuità nel ritmo del racconto. Formula alla Cluedo, poca sostanza.
Il film aprì la strada al Poirot baffuto, mezzo belga e mezzo inglese, di Branagh – che prova a togliersi il suo british così polite, non sempre riuscendoci – che nel 2022 tornò nel sequel Assassinio sul Nilo (2022). Un film sfibrato e intollerabile. Noioso e lento come il corso del fiume sul quale si consuma l’omicidio.
I misteri di Venezia
Punto secondo: le location. Tra le prime immagini di Assassinio a Venezia c’è un piccione a Piazza San Marco, un tentativo di sfuggire alla retorica da cartolina sulla città galleggiante. La verità è che, come Roma, in questo 2023 anche la Serenissima è stata spesso sfondo cinematografico per le produzioni americane, con luoghi che tornano da una pellicola all’altra.
C’è il ponte dei Conzafelzi, palco dell’elettrizzante sequenza tra la Ilsa Faust di Rebecca Ferguson e il villain Gabriel di Esai Morales in Mission Impossible 7, lo stesso su cui Hercule Poirot passa ogni mattina per arrivare al suo ufficio – e da cui un povero disgraziato viene buttato in acqua. C’è il Gran Canale, che le quattro amiche di Book Club – Il capitolo successivo attraversano su un taxi acquatico, prima di essere invitate a una cena esclusiva da uno degli ospiti dell’Hotel Danieli.
E se si guarda indietro ci sono Casanova, Casino Royale e The Tourist, senza dimenticare le indagini di un altro pseudo detective, Robert Langdon, nel terzo capitolo Inferno della saga di Dan Brown.
Per Assassinio a Venezia Branagh scopre Palazzo Pisani, la Scala Contarini del Bovolo, la chiesa dei Miracoli e la zona dei rii e Palazzo Malipiero. Ricostruisce poi una parte delle location ai Pinewood Studios di Londra, ma l’atmosfera della laguna resta e si sente, più autentica degli scenari dei film precedenti.
È soprattutto il lavoro nella casa infestata dai fantasmi – il libro da cui il film è tratto è Poirot e la strage degli innocenti, con spiriti di bambini che fluttuano per le stanze e canticchiano dalle pareti – che stupisce e meraviglia. Portandoci direttamente al terzo punto.
La notte di Halloween di Assassinio a Venezia
Punto terzo: la regia. Impostando l’opera come un vero e proprio horror, con inquadrature dall’alto, carrelli con Poirot in primo piano e l’intenzione di distorcere, contorcere e allungare le camere del palazzo abitate dai personaggi durante la notte di Halloween del 1947, Assassinio a Venezia ha un’idea di genere (dell’orrore) molto mainstream. Una svolta rispetto alle opere precedenti, con l’azzeccata scelta della montatrice Lucy Donaldson, complice perfetta delle parti più horror della pellicola.
Mentre Hercule Poirot risolve il mistero sulla morte di una giovane che “sentiva le voci”, smascherando i segreti di una sensitiva che giura di saper parlare con i fantasmi, Branagh imbastisce altrettanti artifici per coinvolgere il pubblico nelle indagini. E funziona. Ci intrattiene con i sotterfugi della spiritista interpretata da Michelle Yeoh e ci fa dubitare della sicurezza del detective, ritiratosi dal mestiere e richiamato “in missione” da una scrittrice (Tina Fey) – come se fosse la stessa Agatha Christie a sollecitarlo.
Condotto in una dimora maledetta, con una donna “sacrilega” che prova a far crollare le sue certezze razionali, Assassinio a Venezia dimostra che anche dopo un pessimo sequel può sempre arrivare un gran bel film.
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