Una tazza di tè a testa e un grande entusiasmo nel raccontare il proprio lavoro. Afef Ben Mahmoud – ballerina e attrice – e Khalil Benkirane – supervisore del programma di sovvenzioni del Doha Film Institute – sono i registi di Backstage. Il film presentato in concorso alle Giornate degli Autori in cui raccontano la storia della compagnia di danza Senza Frontiere che sta concludendo la tournée in Marocco. Nel penultimo spettacolo in una città situata sulla catena montuosa dell’Atlante, Aida provoca Hedi, suo compagno nella vita e nella scena, che a sua volta la colpisce e ferisce davanti agli altri ballerini.
Nella speranza di salvare l’ultimo spettacolo, il gruppo parte immediatamente per rintracciare l’unico medico disponibile nella zona e curare la donna. Durante il viaggio, per evitare una scimmia, l’autobus sbanda e si ferma miracolosamente sul ciglio della strada. Priva di una ruota di scorta, la troupe è bloccata nella foresta. Fuori, la luna piena illumina un paesaggio maestoso e inquietante. Ha così inizio una specie di road movie: invece di aspettare il ritorno dell’autista, l’intera compagnia decide di inoltrarsi nella foresta per raggiungere il villaggio. Attraverso quel percorso, emergerà il vero volto dei personaggi.
Cosa vi ha spinto a co-dirigere insieme questo film?
Siamo sposati e siamo entrambi registi. Quando Afef stava lavorando al suo film ne parlavamo sempre mentre scriveva la sceneggiatura. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda il modo di dirigere. Abbiamo le stesse preoccupazioni. Così un giorno Afef mi ha detto: “Lo dovremmo dirigere insieme. Fai parte di questo film”. Credo abbia ravvivato in me una piccola fiamma che avevo spento.
È stato un processo lungo?
Ci siamo preparati molto bene insieme. E questo è stato estremamente importante. Abbiamo fatto i sopralluoghi nel corso di quattro anni. E nel corso di questo periodo di tempo, ogni volta che trovavamo un nuovo possibile set, discutevamo insieme su come avremmo posizionato la telecamera. Per un anno e mezzo abbiamo lavorato intensamente con gli attori. È stato durante il periodo del Covid. Ci sono stati molti incontri su Zoom.
La particolarità del film è che ci sono dieci attori costantemente insieme sul set dall’inizio alla fine. Trovarsi in mezzo alla compagnia è stato incredibile per l’energia sprigionata. Vedevo le cose ancora più da vicino rispetto a quando sei seduto dietro al monitor. Era ancora molto interessante il processo lavorativo. Perché se durante le riprese vedevo qualcosa che non andava, lo potevo sistemare in corso d’opera.
Com’è stato coordinare tutti gli attori, non solo sul set, ma anche in fase di scrittura per permettere che ognuno di loro avesse lo giusto spazio sullo schermo?
La sceneggiatura ha richiesto cinque anni di scrittura. E dato che il film tratta di una compagnia teatrale e non di un personaggio, è stato estremamente importante nel processo di scrittura essere molto attenti a dare uno spazio a ciascuno in un determinato momento. Il nostro obiettivo principale era iniziare con la sequenza di danza. Ma dopo quel momento continuiamo a danzare con la telecamera. È stata la nostra chiave narrativa. Trovare cioè il modo di affrontare il movimento durante tutto il film, passo dopo passo. La coreografia era costantemente presente. Abbiamo realizzato molte riprese lunghe.
Come per gli attori, anche con il direttore della fotografia abbiamo lavorato per un anno discutendo dell’universo che volevamo creare. Volevamo avere delle ombre, con i personaggi a volte illuminati ma che poi scompaiono. E tutto questo non è stato facile da realizzare nella foresta, perché non potevamo avere molte luci. Avevamo una gru da 30.000 watt alta quasi 30 metri per illuminare l’intera area da sopra gli alberi. C’è stato un enorme lavoro di correzione del colore che ha richiesto circa due mesi e mezzo per far sì che affiora l’umore del film.
La compagnia teatrale è come una famiglia. Hanno i loro segreti, confessioni, legami. Avete scritto la sceneggiatura tenendo in mente questo questo parallelismo?
Le relazioni che si creano durante gli anni in tournée danno vita ad un altro tipo di atteggiamento anche sul palco. È diverso dal cinema. Una produzione può durare due mesi. È un tempo relativamente breve per entrare davvero a proprio agio con le persona di fronte a te. Per Backstage siamo stati fortunati perché abbiamo fatto casting per sette anni. Alcuni di loro avevano già lavorato insieme. Ma quando li abbiamo scelti, non lo sapevamo.
Sì è creata una bella chimica tra tutti i nostri attori capace di generare qualcosa di organico E poi la maggior parte del film è stata girata in ordine cronologico. Una volta entrati nella foresta, avevamo una troupe di 80 persone che non potevamo spostare. Abbiamo passato tre settimane a girare la scena notturna dalle 18:00 alle 6:00 con una temperatura di un grado. E questo ha permesso davvero alla compagnia non solo di legarsi ma anche di sviluppare gradualmente i loro personaggi all’interno del film.
Già dal titolo Backstage denota la sua volontà di farci vedere cosa succede dietro le quinte di un teatro. C’era anche una componente ironica in questo?
Penso che questa sia la cosa più importante. Oggi viviamo in una società in cui tutto deve essere bello. Guardiamo uno spettacolo ma non sappiamo cosa succede dietro le tende del palcoscenico. E l’idea dietro Backstage è proprio quella di distruggere l’idea di bello. Si guardano i costumi, le luci, i volti, i movimenti. Ma tutto il resto del film è una decostruzione. È un lavoro che abbiamo fatto anche con il nostro direttore della fotografia. Si passa dalla luce intensa del palco verso l’oscurità della notte per poi gradualmente ritornare alla luce. Ma con un nuovo ordine stabilito. Lo spettatore li vede rinascere o ridefinirsi. Ha qualcosa a che fare con la società in cui viviamo.
Non a caso la compagnia teatrale è anche impegnata a livello ambientale?
Esattamente. Ma quando si ritrovano nella foresta, un ambiente che presumibilmente conoscono e difendono, si scopre che non ne sanno niente. Ed è per questo che le scimmie sono estremamente importanti nel film. Li cacciano via, sono completamente disarmati. Non sanno come reagire. Siamo tutti impegnati in una causa. Ma quando arriva il momento di rinunciare al frigorifero, alla tv in camera da letto o alla nostra macchina si innesca qualcos’altro. Tra ciò che diciamo e ciò che facciamo c’è un divario.
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