Da’Vine Joy Randolph è il cuore pulsante al centro di The Holdovers – Lezioni di vita di Alexander Payne, film che racconta di un gruppo di studenti e personale scolastico bloccato nel campus di un remoto convitto del New England durante le vacanze natalizie. Randolph interpreta Mary, la cuoca della scuola, che sta elaborando il lutto per la morte di una persona a lei molto cara, accanto all’amaro insegnante Mr. Hunham di Paul Giamatti e al problematico liceale Angus di Dominic Sessa.
Già nota per il film Netflix Dolemite Is My Name e per serie come Only Murders in the Building e The Idol, e per la sua interpretazione teatrale in Ghost: The Musical, nominata ai Tony Awards, per Randolph The Holdovers – Lezioni di vita rappresenta un punto di svolta della carriera. Lunedì 11 dicembre infatti l’attrice ha ottenuto la sua prima nomination ai Golden Globes.
Come si è sentita quando ha appreso la notizia?
Ero ancora nel pieno degli incontri con la stampa a New York. In quel momento stavo facendo la doccia. Pensavo: “Oh mio Dio. Non posso crederci”. Mi sono vestita per l’occasione, per festeggiare.
Come è arrivata la sceneggiatura sulla sua scrivania?
Sono stata molto fortunata. Alexander Payne conosceva il mio lavoro, a mia insaputa. Credo che questa sia una lezione: rimanere in gioco. Non si sa mai se qualcuno ti sta guardando o tenendo gli occhi aperti. Non lo conoscevo ma mi ha contattata lui. Mi ha detto che in base al lavoro che aveva visto – credo che le sue parole fossero basate in particolare su Dolemite – pensava che potenzialmente sarei stata una buona candidata per quel ruolo. Così abbiamo organizzato un primo incontro e mi ha descritto il contesto della parte, poi mi ha dato il copione da leggere.
Quali sono state le sue prime impressioni su Mary quando ha avuto la possibilità di leggere il copione?
Mi è piaciuto molto quanto il personaggio fosse completo e quanto fosse già in contrasto con gli stereotipi. Ha creato per me uno spazio di sviluppo molto ampio. Ad essere sincera, mi è piaciuto molto il fatto che, in quanto donna, non abbia dubbi sui suoi sentimenti. Vive apertamente il suo dolore, prende i suoi spazi e non scende a compromessi. E mi è piaciuto molto che tutti intorno a lei lo abbiano permesso, soprattutto in quel periodo storico. Mi ha attirato il fatto che avesse tante belle sfumature e che fosse comprensibile da molti punti di vista diversi. Volevo che si percepisse come la nonna, la zia o la migliore amica di qualcuno. Una figura materna, questo era il mio obiettivo, volevo che la gente si affezionasse a lei.
E che, a prescindere dal proprio aspetto, dal proprio lavoro o da qualsiasi altra cosa, ci si potesse immedesimare. Inoltre, volevo concentrarmi sulla capacità di entrare in contatto con le persone in relazione alla perdita e al lutto. Mi piaceva che non fosse un film convenzionale sulle vacanze, dove tutto si chiude con un bel fiocco alla fine, ma che fosse diverso, perché il mondo è diverso. È qualcosa che le persone che potenzialmente stanno vivendo un momento difficile possono provare davvero, e mi sembra che sia una situazione molto comune quella raccontata nel film. Durante le vacanze, non tutti sono sempre allegri. E poi, avere l’opportunità di lavorare con Paul Giamatti, è stato davvero un sogno.
Com’è stata la collaborazione con Alexander Payne per sviluppare il personaggio?
Ci siamo seduti e abbiamo fatto una lettura collettiva per due o tre settimane, una cosa davvero insolita. Non ho mai vissuto un’esperienza del genere, in cui si presta tanta attenzione in anticipo. Abbiamo analizzato insieme la sceneggiatura. Di solito accade che – non per tre settimane, ma forse per un giorno o un paio d’ore – il regista venga da te e ti chieda se c’è qualcosa del tuo personaggio con cui sei d’accordo o con cui non sei d’accordo o che vuoi esplorare. Quello che ha fatto Alexander è stato davvero straordinario: abbiamo riletto ed esaminato la sceneggiatura da cima a fondo diverse volte insieme allo sceneggiatore David Hemingson ed è stato incredibile: eravamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Abbiamo creato collettivamente una nuova versione del film. Ricordo che è sempre stato un processo molto collaborativo in un ambiente molto accogliente, il che dice anche molto anche su Alexander Payne.
Ci sono delle scene o dei momenti che vi sono sembrati più impegnativi da girare?
Per me è stato quasi come se ci fossero due film in uno. Uno era nella sceneggiatura, in particolare nei dialoghi. L’altro nelle scene mute. Quasi la metà della sceneggiatura è fatta di silenzi, per cui ho dovuto imparare a riempire lo spazio, a riempire il momento. Trovarmi in quel dolore, in quei luoghi, è stato sicuramente difficile. Ho dovuto creare uno spazio intimo in cui sentirmi a mio agio per sentirmi vulnerabile e aperta. Ho dovuto mettere da parte la mia sicurezze e mettermi a nudo. So che sarà qualcosa di duro e crudo ma, ho pensato, se non altro, curerà qualcuno che riuscirà a immedesimarsi. All’inizio ero agitata, ma tutti sono stati molto gentili nel creare un ambiente sicuro per me e molto solidale. L’altra cosa che secondo me è stata una sfida, inoltre, è il dolore. Qualcuno potrebbe facilmente leggere il copione e dire: “Ho capito, è depressa”, ma ci sono tanti livelli, sfumature e gamme di quel sentimento. È stato come camminare sul filo del rasoio, per avere il giusto tono e il giusto mix di emozioni. Perché non volevo esagerare, ma allo stesso tempo non volevo sminuire il personaggio.
Tra una ripresa e l’altra, uscendo da questo dolore, siete riusciti a divertirvi e a rilassarvi, nascosti nella campagna innevata del New England?
Ho dovuto assolutamente farlo, perché altrimenti sarebbe stato troppo per me. Fuori dal set ho dovuto fare il contrario. Sono rimasta allegra e spensierata e gioviale, in modo da conservare la performance per il momento adatto. E poi eravamo a Boston, d’inverno, è troppo. La depressione stagionale esiste già, bastava quella. Sono grata di essere riuscita a capirlo nelle prime due settimane. All’inizio infatti ho provato a restare in uno stato d’animo di tristezza ma ho capito che non era fattibile, dovevo rimanere in contatto con il mondo reale e con la mia famiglia. Mi ha aiutato la musica, ascoltavo la mia musica e il pop, nei momenti in cui dovevo distaccarmi dal personaggio. Così sono riuscita a creare il suo mondo e separarlo dal mio. Ho trovato il modo di avere una mia dimensione all’interno del suo spazio.
Lei è anche in Only Murders in the Building, che ha ricevuto diverse nomination ai Golden Globes. Cosa ricorda dell’esperienza nella serie?
È uno dei miei lavori preferiti. Dico sempre che quando e se mi vorranno di nuovo, io ci sarò. Adoro quel set. Ora capisco quando gli attori dicono che vorrebbero lavorare solo con brave persone, è una cosa che cambia le carte in tavola. Quando c’è la giusta intesa, quando tutti, dall’inizio alla fine sono coinvolti, credono nel progetto, si impegnano, danno il meglio di sé, è una meraviglia. In Only Murders in the Building in particolare, il co-creatore John Hoffman si destreggia fra diversi personaggi e diverse trame e le tesse tutte insieme. È l’ambiente di lavoro più allegro, divertente, buffo e creativo in cui mi sia mai trovata e se potessi imbottigliare quest’esperienze e portarla con me ovunque vada per i prossimi lavori, lo farei.
Traduzione di Pietro Cecioni
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