Uno chiede mele, l’altro risponde pere. Uno dice quanto è bello il sorgere del sole, l’altro che la parte più suggestiva della giornata è il tramonto. Non c’è soluzione di continuità, solo battute sporadiche che possono raggiungere picchi esistenziali. Oppure no. È la scrittura del teatro dell’assurdo, traslata negli anni anche nel cinema e di cui hanno usufruito Guillermo Calderón e Pablo Larraín ne El Conde, vincitore della miglior sceneggiatura all’80esima Mostra del Cinema di Venezia.
Il regista cileno, di ritorno al Lido dopo Ema (2019) e in arrivo su Netflix dal 15 settembre, si è affidato alla stravaganza non solo di un genere, quello dell’horror, per rappresentare il suo Augusto Pinochet in veste di vampiro – per una pellicola che, horror, non è affatto.
Ma si è avvalso di una serie di trovate eccentriche e di siparietti scollegati dalla realtà, che trovano il loro senso solo al momento dell’epilogo. Proprio come accade con le opere dell’assurdo, in cui bisogna avere il quadro generale per poterne cogliere il messaggio.
Un’impostazione nella scrittura e nella descrizione del protagonista, interpretato da Jaime Vadell, che gioca sulle contraddizioni dei personaggi. Su tutte, la figura di Pinochet: insofferente verso un mondo che non lo ricorda (solo) come un dittatore feroce e indulgente, bensì come un ladro. Tutto può sentirsi dire il non-morto, ma non che è stato un ladro. Che i suoi conti bancari nascosti in giro per il mondo siano stati scoperti poco importa.
Divertendosi sul parallelismo vampiro uguale dittatore, succhiasangue uguale mostro che ha dissanguato un intero popolo (umanamente e economicamente), El Conde prosegue sul filo delicato della presa in giro e della critica sociale. Utilizzando lo spauracchio della comicità per tratteggiare la ferocia politica di un despota che sta cercando il modo di morire, e che, purtroppo, non ci riesce.
El Conde: volare come vampiri
Così la pellicola prosegue per la sua intera durata gingillandosi con parallelismi e cercando le contraddizioni più paradossali. Essenziali per impostare un vero e proprio palcoscenico su cui esibire tutte le incoerenze della famiglia Pinochet e del popolo cileno, tema portante nella filmografia di Larraín – ricordiamo la trilogia “ideale” composta da Tony Manero, Post Mortem e No – I giorni dell’arcobaleno.
La location anche contribuisce ad amplificare la sensazione di trovarsi su di un palco: un numero limitato di attori, una casa che cade a pezzi, una landa desolata su cui i vampiri del regista si librano in aria. Anche nel loro volo c’è tanta insensatezza. Lo vediamo nella danza scomposta a un palmo da terra di Carmencita, l’attrice Paula Luchsinge, impegnata in giravolte fanciullesche. Un po’ come era stato un anno prima per la scena in apertura di Bardo, la cronaca falsa di alcune verità del messicano Alejandro González Iñárritu. O quella iconica di 8 e mezzo, col regista Guido Anselmi di Marcello Mastroianni che sogna di essere legato ad una corda e di fluttuare – il protagonista è il doppio di Federico Fellini, re del sogno e dell’assurdo per antonomasia.
Sacro e profano, aspettando Dio (o Godot?)
“Tutto è assurdo quando manca Dio”, diceva Eugène Ionesco, padre della letteratura e del teatro dell’assurdo insieme a Samuel Beckett (che a sua volta faceva chiedere in Aspettando Godot a Vladimir se Estragon avesse mai letto la Bibbia: “La Bibbia? Devo averci dato un’occhiata”). E ne El Conde anche la Chiesa Cattolica, così come lo Stato, diventa sberleffo dietro cui si nascondono avarizia, gola e brutalità, con tanto di sporadici esorcismi. Ogni cosa, nella follia del film, convive insieme: sacro e profano. Vampiri, suore e umani.
Un calderone la cui portata principale rimane il male, perpetuo e costante. Che ricrea sempre e solo se sesso. Male che genera altro male. Un male che, teorizzava il filosofo francese Vladimir Jankélévitch, può essere a sua volta assurdo: se il malvagio è tanto vile da prendere a pretesto la necessità del male significa che è vile al punto da peccare sentendosi autorizzato dal destino. La spiegazione, in pratica, del finale de El Conde.
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