In un momento in cui il cinema americano sembra voler ignorare ogni discorso sui problemi che il nostro presente deve affrontare – Hollywood è troppo impegnata a produrre cinecomic e altre produzioni grondanti effetti speciali – c’è almeno chi tenta di ovviare a tale mancanza adoperando la propria celebrità per dare visibilità ad altre forme di narrazione.
Basta vedere i titoli entrati nella shortlist degli Academy Award per il migliore cortometraggio e cortometraggio d’animazione: nella prima categoria ci sono ad esempio An Avocado Pit e Good Boy, che vedono rispettivamente Elliot Page come produttore esecutivo e Ben Whishaw come protagonista. Tim Blake Nelson ha invece doppiato il corto d’animazione Ninety-Five Senses, presente nell’altra lista.
An Avocado Pit (e il coinvolgimento di Elliot Page)
Cosa accomuna questi tre titoli? La volontà di gettare uno sguardo non preconcetto su aspetti del nostro presente che non ottengono la visibilità che meriterebbero.
Il portoghese An Avocado Pit, diretto dal regista transgender Ary Zara, racconta dell’incontro di una notte tra la trans sex-worker Larissa e Claudio, entrambi spinti dalla voglia di conoscere meglio l’altro: “Ho amato la scelta di raccontare una storia non violenta che vede protagonista un transessuale – ha dichiarato in esclusiva a The Hollywood Reporter Roma Elliot Page -. Al contrario The Avocado Pit è gioioso, in grado di elevare lo spirito dello spettatore. La vitalità e la verità di queste due persone che imparano a conoscersi nel corso di una sola notte diventa qualcosa di trascinante.”
Good boy
Allo stesso modo Good Boy affronta i temi dell’omosessualità e della perdita adoperando la leggerezza invece del dramma: “La sfida maggiore nello scrivere un cortometraggio sta nel non far sentire al pubblico che avrebbe potuto essere una storia più lunga – esordisce Ben Whishaw – che quindici minuti sono il tempo giusto per un racconto. Quando incontriamo Danny si trova in un momento complesso della sua vita, eppure in qualche modo riusciamo a sorridere delle sue disavventure.
Il regista Tom Stuart ha scelto giustamente di mostrare che ci sono anche altri modi per affrontare determinate tematiche, non tutto deve per forza essere espresso come doloroso o drammatico”.
Ninety-Five Senses
Diretto da Jared e Jerusha Hess (quelli di Napoleon Dynamite) Ninety-Five Senses racconta dell’anziano Coy, il quale tenta di vivere la vita attraverso i propri sensi visto che tutto il resto gli è impedito: l’uomo sta infatti vivendo i suoi ultimi giorni prima di essere giustiziato.
“Sono assolutamente contrario alla pena di morte – ha dichiarato Tim Balke Nelson – trovo sia una politica incoerente quella di punire un omicidio commettendone un altro. Non sono necessariamente un attore che sceglie i propri progetti in base alla loro rilevanza sociale, ma in questo caso la sfida artistica era molto allettante, ovvero adoperare soltanto la mia voce per dare vita a un personaggio tanto complesso. Non avevo mai pensato alla pena di morte nel modo in cui questo cortometraggio mi ha costretto a fare. Non ho mai evitato ruoli perché problematici quando mi sono trovato d’accordo con il loro discorso”.
La domanda comune posta alle tre star coinvolte nei cortometraggi riguarda il motivo che li ha spinti a collaborare a questi progetti: “Sono nella posizione privilegiata di poter scegliere a quali film lavorare – ha commentato Nelson – e intendo continuare a farlo. Corti come questo o altri piccoli film indipendenti che ho girato negli ultimi anni mi consentono una libertà creativa spesso difficile da ottenere.
La pressione commerciale di produzioni ad alto budget nel corso degli anni le ha rese molto meno interessanti. Ho girato Ninety-Five Senses senza percepire compenso, o meglio l’ho donato interamente all’organizzazione non-profit che ha prodotto il cortometraggio, MAST.”
Allo stesso modo la pensa Elliot Page: “Devo precisare che non ho avuto assolutamente nulla a che fare con la creazione artistica di An Avocado Pit, il merito è totalmente ed esclusivamente del suo regista Ary Zara. Una mia cara amica DJ mi ha visitato a Toronto nel momento in cui stava lavorando come programmatrice di cortometraggi per un festival e mi ha detto che dovevo assolutamente vederlo. Ne sono rimasto commosso, la messa in scena possiede una fattura squisita, con delle performance che scaldano il cuore.
Ho iniziato a seguire Ary su Instagram, siamo entrati in contatto e in un secondo momento ho avuto l’opportunità di salire a bordo come produttore esecutivo. Sento il privilegio ma anche la responsabilità di amplificare la risonanza mediatica di progetti che amo e in cui credo. In passato ho sperimentato le difficoltà di ottenere la giusta dose di riconoscimento per corti come questo, sono felice di essere nella posizione di poter aiutare.”
Ben Whishaw al contrario aveva motivi molto più personali per accettare di realizzare Good Boy: “Conosco Tom Stuart da molto tempo ma ci eravamo persi di vista, durante la pandemia ci siamo dati appuntamento in un parco e abbiamo passeggiato per ore. Quando mi ha parlato dell’idea del cortometraggio sono stato io a insistere perché lo dirigesse, e quando circa sei mesi dopo mi ha mandato la sceneggiatura mi sono immediatamente connesso con la figura di Danny.
Ho amato indossare la sua camicia anni ‘70 o il cappotto di piume, adoperare quei costumi mi ha riportato all’infanzia, quando mi vestivo con ogni tipo di vestito che riuscivo a trovare. Era un modo per nutrire la mia immaginazione”.
Ultimo, fondamentale elemento in comune tra An Avocado Pit, Good Boy and Ninety-Five Senses è poi quello di voler evitare qualsiasi stereotipo riguardante i temi trattati o i personaggi rappresentati: “Se si è aperti alla volontà di conoscere veramente una persona, anche una notte può bastare – sorride Page – Vedere questi sentimenti espressi da un personaggio transessuale è qualcosa di fresco ed emozionante.”
“Danny non è un personaggio costruito sulla sua sessualità – dichiara Whishaw – si tratta solamente di un aspetto del suo essere come tutti gli altri. Il mondo sta cambiando anche se non velocemente quanto vorrei, l’omosessualità non è più un tabù sociale”.
Infine Tim Blake Nelson ha spiegato alcune scelte legate al personaggio a cui presta voce. “La maggior parte dei condannati a morte nel nostro Paese è nera, un problema che il governo deve assolutamente affrontare. Il nostro cortometraggio non va in quella direzione perché non voleva che la piaga del razzismo negli Stati Uniti offuscasse in qualche modo il discorso sull’ingiustizia della pena di morte. Ho provato molti diversi accenti che potessero delineare con vigore Coy, alla fine considerato che il Texas è lo stato che giustizia piû condannati, la scelta è arrivata di conseguenza.
Preferisco interpretare personaggi di quell’area del Paese perché molto raramente vengono dipinti con verità e profondità emotiva, tipicamente sono generalizzati come figure buffe o attraverso altri cliché. Sono cresciuto negli stati del Sud, penso di avere il diritto di dar voce alle contraddizioni umane e sociali che ancora oggi vi sono.”
Quando il prossimo 23 gennaio verranno annunciate le nomination agli Oscar 2024, la speranza è che questi tre cortometraggi riescano ad entrare nelle rispettive cinquine, il che significherebbe maggior possibilità di essere visti e magari suscitare quel tipo di dibattito di cui il cinema contemporaneo, in particolar modo quello americano, sembra aver dimenticato la necessità.
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