L’adattamento di Martin Scorsese del libro Killers of the Flower Moon di David Grann è solo l’ultima svolta di una lunga tradizione cinematografica. Quella di sfruttare i fascicoli dell’FBI per creare scenari sul grande schermo.
In origine, Hollywood ambiva alla convalida dell’FBI (“basato su casi reali dell’FBI!”) e all’imprimatur personale del suo capo supremo, J. Edgar Hoover (che nel 1945 leggeva davvero le pubblicità delle assicurazioni sulla vita per il programma radiofonico della NBC This Is Your FBI). Oggi, invece, prende spesso spunto dall’FBI senza il suo sigillo ufficiale. In ogni caso, le due istituzioni americane hanno goduto di una proficua relazione nel corso degli anni.
Creata nel 1908 all’interno del Dipartimento di Giustizia come Bureau of Investigation e formalmente contrassegnata con le sue famose iniziali nel 1935, l’FBI è cresciuta durante la prima ondata dei media nell’era della comunicazione elettronica e ha sfruttato appieno questa concomitanza.
Il cinema hollywoodiano (cinegiornali, cortometraggi e lungometraggi), i programmi polizieschi radiofonici, i fumetti e le serie televisive hanno fatto da pubblicità gratuita all’FBI e all’uomo che l’ha presieduta per quasi cinquant’anni. Tutti i media hanno seguito e facilitato l’ascesa dell’agenzia, spettacolarizzando i discorsi di Hoover sulla necessità di studiare scientificamente il crimine e celebrando le gesta impavide di un capo eternamente vigile. Solo molto più tardi gli studi e le reti radiotelevisive hanno gettato un occhio più critico sulla loro creatura.
Il prologo, l’FBI e Killers of the flower moon
Pur essendo un’improbabile star mediatica, J. Edgar Hoover era un maestro della manipolazione. Nato nel 1895, era un ragazzo asociale e poco sorridente: la sua migliore amica era sua madre. Iniziò la sua carriera lavorativa come factotum presso la Biblioteca del Congresso, dove affinò la sua inclinazione per la catalogazione delle informazioni e l’indicizzazione della realtà. Nominato al Bureau of Investigation nel 1917, si specializzò nello stanare i cosiddetti “stranieri sovversivi” prima di essere nominato, all’età di ventinove anni, capo e responsabile della ristrutturazione dell’agenzia. Era il 1924. Fu il lavoro che fece per tutta la vita.
Data la sfacciata corruzione e l’incompetenza delle forze dell’ordine locali, la visione di Hoover di un quartier generale centralizzato per raccogliere dati statistici sui crimini, valutare le prove e formare un gruppo di esperti forensi era molto sensata.
Il libro di Grann – che è un avvincente resoconto sui veri omicidi seriali nei confronti dei membri della tribù Osage (ricchi di petrolio) avvenuti in Oklahoma negli anni Venti – sostiene la tesi di Hoover. Gli assassinii a sangue freddo di intere famiglie Osage erano uno sforzo comunitario perpetrato da pilastri della comunità bianca, aiutati e sostenuti da uomini d’affari locali, uomini di legge, medici e impresari di pompe funebri. Nel racconto di Grann, l’indagine degli agenti federali rappresenta una ricerca di giustizia che funge anche da colpo di scena per le pubbliche relazioni di un’FBI ancora in embrione.
In principio fu Dillinger
All’inizio degli anni Trenta, l’FBI colse un’occasione ancor più ghiotta per farsi le ossa. Il proibizionismo aveva dato vita a un nuovo tipo di criminale, il gangster urbano. Un fuorilegge armato di pistola e pronto per la Hollywood dei primi anni del sonoro. Come i loro modelli di ispirazione nella vita reale, i prototipi di un genere nascente – Piccolo Cesare (1931), Nemico pubblico (1931) e Scarface – Lo sfregiato (1932) – incanalavano il risentimento contro un’economia in crisi al culmine della Grande Depressione.
I politici americani temevano la possibilità che questa identificazione con i ribelli dello schermo potesse essere più che affascinante, soprattutto perché i giornali scandalistici si preoccupavano a malapena di nascondere la loro ammirazione per gli audaci rapinatori di banche o il loro disprezzo per le forze dell’ordine locali i cui inseguimenti si fermavano sul confine tra uno Stato e l’altro.
Hoover colse l’opportunità. Il più famoso e ammirato dei gangster era l’elegante John Dillinger. Era un criminale così popolare che l’ufficio di Hays proibì a Hollywood di produrre qualsiasi film basato sulle sue imprese. Ma non importa: l’FBI fece in modo che Dillinger si assicurasse un ruolo duraturo nella storia del cinema.
Nell’afosa serata del 22 luglio 1934, dopo aver visto il film della MGM Manhattan Melodrama (1934), a tema malavitoso, al Biograph Theater di Chicago (dotato di aria condizionata) Dillinger fu ucciso da un agguato dell’FBI guidato dall’agente speciale Melvin Pervis. Dillinger, Nemico Pubblico N. 1, un cortometraggio uscito poco dopo l’esecuzione, fu solo l’inizio. Sulla fotografia di un Dillinger morto steso su un tavolo all’obitorio di Chicago, il narratore si vanta: “Il governo federale prende sempre il suo uomo!”. Con una certa enfasi su federale.
L’imperativo Breen
Sia per l’FBI che per Hollywood, il 1934 fu un anno di svolta. L’amministrazione Roosevelt stava trasferendo il potere dalle città e dagli Stati a Washington D.C., e tra le molte agenzie alfabetiche create con il New Deal di FDR nessuna si sarebbe dimostrata più duratura e potente dell’FBI. Nel frattempo, a Hollywood, la Production Code Administration, diretta da Joseph I. Breen, iniziò a imporre il proprio tipo di legge e ordine sul cinema americano. L’ufficio di Breen era attento all’imbroglio che Hollywood aveva sempre perpetrato nei film di gangster: divertirsi per 85 minuti con sparatorie, auto veloci, vestiti alla moda e ragazze sexy, prima di imporre una sanzione per il crimine che non paga negli ultimi cinque minuti.
Con l’imperativo di Breen, Hollywood cambiò le sue abitudini e abbracciò il nuovo Zeitgeist. Persino gli specialisti di gangster della Warner Bros. si convertirono con un atto di pentimento intitolato La pattuglia dei senza paura (G-Men) del 1935. Il termine fu coniato da un teppista di seconda categoria con un soprannome di prima categoria, Machine Gun Kelly, che nel 1933 fu messo alle strette nel suo nascondiglio dagli agenti federali. Piuttosto che uscire di scena in un tripudio di gloria, alzò le mani e implorò: “Non sparate, G-men! Non sparate!”.
James Cagney interpretava il protagonista, e la sconfitta degli emblematici gangster del cinema americano da parte dei federali segnò una seria svolta culturale. “Il più famoso cattivo di Hollywood si unisce ai ‘G-Men’!”, gridavano le pubblicità. Fissando il modello per tutti i film successivi a favore dell’FBI, La pattuglia dei senza paura si concentrava sugli straordinari strumenti forensi dell’emergente Stato di sorveglianza. La rappresentazione feticizzava la balistica, il lavoro di laboratorio e le impronte digitali (oggi sostituite dal DNA).
“È completamente dalla parte giusta della legge, ed evviva il Dipartimento di Giustizia”, esultava The Hollywood Reporter. Gli studios di tutta la città aderirono al programma: United Artists con Facce false, MGM con Missione eroica, Warner Bros. ancora con Il grande nemico e Paramount con Men Without Names (titolo originale: Federal Dick), tutti del 1935.
G-Men contro il crimine
Nel corso degli anni Trenta, gli americani non potevano accendere la radio o entrare in un cinema senza che gli venisse ricordato che i G-Men combattevano il crimine e che queste altruiste sentinelle erano state salutate dall’editorialista Walter Winchell come “i migliori poliziotti d’America” e “i G-man numero 1 della nazione”.
Tipico è il cortometraggio della Universal dal titolo You Can’t Get Away with It (dicembre 1936). Prodotto con l’approvazione e la partecipazione di Hoover sullo schermo, promette un tour esclusivo “dietro le quinte con i G-Men” nella nuova sede dell’FBI, costruita nel 1935 secondo le specifiche di Hoover. La telecamera indugia affettuosamente su schedari, laboratori criminali, schede di impronte digitali e foto segnaletiche. Uno squadrone di avvocati, contabili, scienziati e centralinisti è pronto perché “l’FBI non dorme mai!”. (Tutti uomini: fino al 1972 non c’erano G-women).
Alla fine del tour, Hoover guarda in camera e ricorda al pubblico che “il Federal Bureau of Investigation è vicino a voi quanto il telefono più vicino”, vale a dire che basta comporre il 7117 per chiedere aiuto. Lo sceriffo di frontiera, lo sceriffo di contea, il poliziotto di quartiere: tutti venivano soppiantati dagli investigatori di Hoover, che raccoglievano dati e tenevano sotto controllo la situazione, come personificazione suprema dell’applicazione della legge americana.
L’FBI contro i nazisti
Durante la Seconda Guerra Mondiale, passando dai gangster ai nazisti, Hoover consolidò il suo status di principale protettore del reame. Nei cinegiornali, negli spot radiofonici e nelle riviste, fece appello agli americani che si trovavano sul fronte interno affinché segnalassero qualsiasi attività sospetta. “Combattendo battaglie silenziose su un fronte silenzioso, quasi 4.500 agenti speciali dell’FBI guidati dal direttore John Edgar Hoover stanno ottenendo innumerevoli vittorie sull’esercito invisibile di spie e sabotatori del nemico”, dichiarò nel settembre 1942 la rivista Time, esortando gli spettatori a “osservare i G-men dello zio Sam impegnati nella guerra!”.
Hoover si dimostrò all’altezza della situazione: A dispetto di quanto raccontato in Sabotatori (1942) di Alfred Hitchcock, sotto il suo controllo non si verificò alcun atto di sabotaggio sul fronte interno. La casa della 92ª strada (1945) di Henry Hathaway – “realizzato con la collaborazione e la benedizione di J. Edgar Hoover e della sua organizzazione, l’FBI” – commemorava il primato del Bureau durante la guerra, raccontando di come i G-men sventarono un complotto di spie naziste per ottenere segreti atomici americani. I cinema pieni, commentò un esercente soddisfatto, “dimostrano che l’FBI è oro colato per i biglietti”.
Il dopoguerra
Nel dopoguerra, l’apparato di sorveglianza messo in atto per individuare gli agenti nazisti fu impiegato e ampliato per intrappolare la nuova minaccia alla sicurezza interna, reale e immaginaria, i sovversivi comunisti. I registi di Hollywood, ascoltando i clic dei loro telefoni e notando uomini in scarpe marroni e calzini bianchi che prendevano i numeri di targa nei parcheggi degli studios, risposero con un ciclo difensivo di spettacolo anticomunista ispirato alle gesta di ex agenti dell’FBI che sfruttavano le loro credenziali per ottenere vantaggi personali. Tra le proposte, I Was a Communist for the FBI (1951), Il delitto del secolo (1952) e la serie televisiva I Led 3 Lives (1951-53).
Hoover era ormai la figura più inattaccabile della vita pubblica americana, un vero e proprio “intoccabile”, al di sopra di ogni critica, a cui si inchinavano sia i politici repubblicani che quelli democratici. Per Hollywood, la consacrazione di questa unione amorosa fu Sono un agente FBI (1959) di Mervyn LeRoy, basato sull’agiografia bestseller di Don Whitehead.
All’inizio del film, in Technicolor e Cinemascope, Hoover appare brevemente alla sua scrivania, con la spalla Clyde Tolson al suo fianco. James Stewart interpreta un agente complesso la cui carriera è parallela all’ascesa dell’agenzia. La storia, secondo Hoover, scandisce i capitoli di una vita inseparabile dal lavoro, o meglio dalla vocazione, dell’FBI: le indagini sul KKK, gli omicidi Osage, il massacro di Kansas City del 1933 (in cui furono uccisi quattro agenti pubblici e in seguito al quale gli agenti dell’FBI ottennero il diritto di portare armi da fuoco), le spie naziste e gli infiltrati sovietici.
La sequenza prima dei crediti è la migliore: un conto alla rovescia per un omicidio di massa che sarebbe stato ancora vivo nella mente degli spettatori del 1959. Ovvero una truffa assicurativa di Jack Gilbert Graham (interpretato da Nick Adams), che nel 1954 piazzò una bomba nella valigia della madre prima che questa si imbarcasse su un volo da Denver: la detonazione in volo uccise tutti i 44 passeggeri a bordo. Nei due decenni successivi a La pattuglia dei senza paura e You Can’t Get Away with It, l’agenzia è diventata ancora più onnisciente, la rete di sorveglianza si è allargata a spirale in cerchi sempre più ampi e la scienza forense si è stretta in una morsa sempre più salda. Mentre le prove si accumulano, un agente dice a Graham: “Non facciamo insinuazioni. Raccogliamo semplicemente le prove”. Graham non ha alcuna possibilità.
La caduta
Sono un agente FBI segnò l’apice del culto dell’FBI nella cultura americana del dopoguerra. Negli anni ’60, l’uomo il cui nome era sempre stato pronunciato con riverenza si trovò ad essere fuori dai tempi. Giornalisti e politici sicofanti si sono improvvisamente ricreduti: era salutare per una democrazia permettere a un burocrate di non rispondere a nessuno? Il passo falso decisivo di Hoover fu quello di diffamare gli attivisti del movimento per i diritti civili come quinte colonne di ispirazione comunista.
“Martin Luther King è un bugiardo”, ringhiò Hoover nel 1964, dopo che King accusò l’FBI di aver rallentato le indagini sugli omicidi degli attivisti per i diritti civili Andrew Goodman, James Chaney e Michael Schwerner. Hoover non si è mai scusato né si è mai ripreso da quel commento.
Mettere le pezze
Per dare lustro alla sua immagine, Hoover si servì del nuovo mezzo televisivo. Fin dagli albori della Tv aveva cercato una vetrina in prima serata per l’FBI. Ma i procuratori generali sotto Eisenhower e Kennedy avevano sempre rifiutato l’accordo, ritenendo che il profilo di Hoover fosse già abbastanza dominante. La serie della ABC Gli intoccabili [1959-1963] era basata sulle imprese dell’agente del Dipartimento del Tesoro – non dell’FBI – nella Chicago dell’epoca del proibizionismo, uno dei rari casi in cui i T-men hanno rubato la scena ai G-men. Quando l’amministrazione Johnson cedette, Hoover divenne di fatto lo showrunner di F.B.I. (1965-1974) della ABC, che Variety definì con franchezza “un programma concepito per togliere dalle braci il prestigio carbonizzato di Hoover”.
Guidati dall’ispettore Lewis Erskine (Efrem Zimbalist Jr.), i G-Men del telefilm si tenevano ben lontani dalle questioni relative ai diritti civili e non eseguivano operazioni illegali. Hoover lesse i copioni, mise un agente sul set come consulente tecnico e si assicurò che la sua fotografia comparisse sullo sfondo. La serie era sponsorizzata dalla Ford, il cui presidente all’epoca era un ex agente dell’FBI. E i cui veicoli sembravano essere l’unica marca automobilistica ammessa sulle strade americane.
La morte di Hoover
Quando Hoover morì nel 1972, i necrologi furono rispettosi. E come potevano non esserlo?
Pochi uomini a Washington avevano lasciato un’eredità simile, ma c’era anche un tangibile senso di sollievo. Nel 1967, l’approvazione della legge sulla libertà d’informazione aveva reso accessibili i file segreti di Hoover e, anche con copiose redazioni, i memorandum interni rivelavano che un numero sorprendente di ore di lavoro dell’FBI era stato impiegato per dare la caccia a sceneggiatori piuttosto che a mafiosi.
Le rivelazioni sul programma di controspionaggio interno dell’FBI del 1971 (chiamato in codice CoIntelPro), rivelarono che l’agenzia si era trasformata in un’entità che si faceva giustizia da sé. Nel 1975-1976, la sottocommissione del Senato per lo studio delle operazioni governative rispetto alle attività di intelligence, presieduta dal senatore Frank Church, tenne delle udienze per indagare sugli investigatori. I risultati rivelarono che l’FBI (insieme ad altre sigle federali) era un ramo extra-costituzionale di quello che in seguito sarebbe stato definito lo Stato profondo.
La ribellione di Hollywood
Una nuova generazione di registi hollywoodiani si lanciò all’attacco. The Private Files of J. Edgar Hoover (1977) di Larry Cohen fu il primo dei film più importanti del blacklash, realizzato proprio mentre le rivelazioni sull’FBI erano ancora sconvolgenti e la rabbia era ancora alta.
Il corpulento e paffuto Broderick Crawford è ben calato nel ruolo di un Hoover del tardo periodo. È furioso come un leone in gabbia, pieno di nevrosi, soprattutto nei confronti delle donne. “Era l’uomo più temuto d’America!”, recitava il titolo. Ma non più. E nemmeno Hollywood si è più attenuta alla versione ufficiale. Questa volta la scritta prima dei crediti assicura agli spettatori: “Questo film è stato girato in luoghi reali dell’FBI, ma senza l’approvazione o la censura del Bureau”.
Il film aveva già fatto trapelare le voci sull’omosessualità di Hoover che avrebbe negato un’autorizzazione per la sicurezza a chiunque altro nel governo. Negli anni successivi, pochi drammi politici retrospettivi ambientati negli anni Sessanta – Hoffa – Santo o mafioso? (1992), Malcolm X (1992), Nixon (1995), Selma (2014) – hanno omesso una scena in cui J. Edgar Hoover o i suoi tirapiedi tirano nefandamente i fili da dietro le quinte per minare il corso della giustizia che si erano impegnati a difendere.
“Ef… Be… Eye”
Oggi, naturalmente, l’ala politica che un tempo era più propensa a divinizzare l’FBI, vuole invece ridimensionarlo. Ma per i registi hollywoodiani, che siano revisionisti (J. Edgar di Clint Eastwood) o elogiativi (in pratica tutte le serie di true crime “tratte da veri casi!” su A&E e Netflix), le iniziali conservano ancora una certa magia.
Anche i serial killer del cinema hanno mostrato il dovuto rispetto per il brand. “Potevi solo sognare di uscire, di andare da qualche parte”, sibila Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti (1991). Una scena forte in cui Hopkins cerca di psicanalizzare l’agente dell’FBI in erba Clarice Starling. Conosce la sua ambizione finale e assapora ogni lettera, “fino all’Ef… Be… Eye”.
Traduzione di Pietro Cecioni
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