Interpretazioni emotivamente crude e forti come quelle di Saoirse Ronan e Paul Mescal avrebbero meritato più di quello che Foe riesce a dare. Presentato al New York Film Festival, il film di Garth Davis è criptico come il precedente adattamento di un romanzo di Iain Reid, Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman, ma vira verso un cupo racconto di fantascienza psicologico su un pianeta morente. Ronan e Mescal ne sono al centro, con un matrimonio in crisi minacciato dalla presenza seducente di Aaron Pierre. Ciò che inizialmente ha il fascino di una storia inquietante, sprofonda sempre più verso la sdolcinatezza, la confusione e la solennità presuntuosa.
Distopia futuristica
Un’area arida dell’entroterra australiano, punteggiata di alberi ridotti a scheletri nodosi, sostituisce efficacemente il cuore decimato dell’America nelle immagini sorprendenti del direttore della fotografia Mátyás Erdély (Il figlio di Saul). L’anno è il 2065 e, poiché l’acqua dolce e le terre abitabili scarseggiano, si stanno sviluppando nuovi insediamenti nello spazio. È qui che entra in gioco l’enigmatico personaggio di Aaron Pierre, Terrance, che recluta coloni per OuterMore, azienda che ha assunto il ruolo di governo.
Per ragioni che non vengono mai chiarite del tutto, l’azienda ha scelto Junior (Mescal), un lavoratore agricolo di sesta generazione, come candidato per la missione di popolamento di una stazione spaziale, appositamente costruita, che funzionerà come un pianeta a sé stante.
Il morbosamente amichevole Terrance si presenta senza preavviso, con il suo elegante veicolo senza conducente, alla fattoria dove Junior vive con la moglie Hen (Ronan). La coppia si insospettisce per i suoi discorsi sulla strategia di migrazione climatica e Junior rifiuta di farne parte. La sua volontà, tuttavia, è irrilevante. Ed Hen non potrà seguirlo, resterà a casa durante i due anni di assenza del marito.
La vita di coppia nei “quadri” di Erdély
Alcune delle sequenze più interessanti del film sono quelle in cui la macchina da presa di Erdély osserva Junior e Hen sul posto di lavoro. La loro fattoria, in realtà, è solo terra bruciata e arida. Junior si guadagna da vivere in un impianto monolitico di lavorazione dei polli che fa sembrare pittoreschi gli allevamenti intensivi. Hen, in uno stato di sognante distrazione, serve ai tavoli di un locale, una reliquia dei tempi passati, non diversa dai brani vintage suonati sul giradischi della coppia a casa.
Anche se dopo sette anni una distanza inquietante si è insinuata nel loro matrimonio, la tenerezza e il desiderio rimangono, forse ancora di più da quando scoprono che Junior potrebbe essere portato via in qualsiasi momento. L’intero fondamento della loro unione viene però scosso quando Terrance torna l’anno successivo. Li informa che si trasferirà da loro per la fase finale accelerata dei test e si aspetta dalla coppia una profonda gratitudine sia per l’indennizzo offerto dal governo sia per la possibilità di far parte di un esperimento che farà la storia.
Foe, una sceneggiatura che sfugge sul finale
È quando la natura dell’esperimento viene rivelata e le priorità di OuterMore vengono messe in discussione che Davis, che è anche co-sceneggiatore, inizia a perdere il controllo su un materiale sempre più artificioso. È anche il momento in cui il regista abbraccia senza remore il sentimentalismo – che per alcuni critici era stato un problema con Lion – La strada verso casa – e diventa stucchevole, quasi sciocco.
Non è necessario riascoltare la hit country-pop di Skeeter Davis del 1962, The End of the World, per capire che Foe non è tanto un’indagine fantascientifica sui burattinai aziendali, sul disastro climatico o sulla colonizzazione extraterrestre, quanto una storia d’amore distopica immersa nell’orrore ormai ineluttabile dell’intelligenza artificiale. Le persone con cui condividiamo la nostra vita spesso non sono le stesse di cui ci siamo innamorati, ma forse la scienza può rimediare.
Basta che non la si chiami IA, rincara Terrance, mentre – attenzione, spoiler – dà spiegazioni sul sostituto biologico che verrà fornito per tenere compagnia a Hen mentre Junior è via. “OuterMore ha un dovere nei confronti di chi è rimasto”, dice loro con fare sorridente e rassicurante, sottolineando che il “nuovo tipo di forma di vita autodeterminante” non è un robot.
I test psicologici di Terrance spingono spesso Junior oltre il limite, amplificando la sensazione di paranoia da fantascienza retrò. Hen viene esclusa da questo processo, rispondendo invece a domande dettagliate dell’intruso aziendale che rivelano molto sui suoi desideri e sogni intimi e sui modi in cui questi si sono discostati da Junior nel corso del loro matrimonio.
Un nuovo (l’ennesimo) ritorno a Blade Runner
Ma prima che si possa dire “Rick Deckard” o “Blade Runner”, la sceneggiatura introduce delle rivelazioni sui sostituti sintetici che operano nella tragica convinzione di essere umani.
In un caso, la verità si manifesta in uno smascheramento freddo e clinico che si rivela traumatico per tutte le persone coinvolte. Nell’altro, regna l’ambiguità, in una misura troppo confusa per essere intrigante o soddisfacente. Certo, si può rivedere il film nella propria mente e capire come stanno le cose grazie agli indizi disseminati nel corso del film, individuando più o meno il momento in cui è avvenuto il grande scambio (o gli scambi?). Ma quando Foe si protrae fino a quasi due ore, diventa evidente che la sostanza è appena sufficiente a riempire un episodio di Black Mirror.
Il film si salva in parte grazie all’impegno costante di Ronan e Mescal, costretti a un’attesa ansiogena in un ambiente soffocante sia fisicamente che psicologicamente. Ma la sceneggiatura diventa così esagerata da spegnere qualsiasi legame emotivo con loro.
Per quanto carismatici siano gli attori, non possono da soli trattenere l’attenzione. E così come per Ronan e Mescal (due attori irlandesi che interpretano in modo convincente degli americani) lo stesso vale per l’attore britannico Pierre (La ferrovia sotterranea). Una presenza forte, con i suoi occhi penetranti e il suo sorriso raggiante che tradiscono solo un accenno di manipolazione malevola, per poi rivelare un agghiacciante distacco.
C’è molta atmosfera nelle immagini della fotografia di Erdély, nella cupa scenografia di Patrice Vermette e nei suoni inquietanti di una colonna sonora di ampio respiro firmata da Oliver Coates, Park Jiha e Agnes Obel. Ma le domande che Foe si pone – sulla creazione di una coscienza umana, di legami e persino di amore in sostituti artificiali – sono troppo predeterminate per essere provocatorie. Per trovare risposte stimolanti è meglio rivolgersi a un film più audacemente fantasioso, come Ex Machina.
Traduzione di Nadia Cazzaniga
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