Nessuno avrebbe previsto questo risultato al botteghino: Avatar: La Via dell’Acqua, l’atteso seguito del film di James Cameron con il maggior incasso di tutti i tempi a livello mondiale, è stato scalzato dal primo posto in Arabia Saudita solo alla terza settimana di uscita, da una commedia familiare sul wrestling prodotta localmente. Non è stata nemmeno una gara a distanza ravvicinata quel fine settimana: Sattar ha venduto il 40% di biglietti in più rispetto al suo rivale e ha stabilito un nuovo record per qualsiasi film saudita in patria, incassando 2,2 milioni di dollari nei primi 12 giorni. Il sintomo che qualcosa sta cambiando nel cinema arabo.
Il caso Sattar e il Red Sea Film Fund
Finanziato dalle nuove società di produzione locali Telfaz11 e Muvi Studios, guidate dall’attore e cabarettista saudita Ibrahim Al Hajjaj e presentato in anteprima al Red Sea Film Festival, l’evento che da due anni offre la possibilità di usufruire di un fondo per il cinema (14 milioni di dollari di sovvenzioni a disposizione di oltre 100 registi di nazionalità africana o araba, per progetti che vanno dallo sviluppo alla post-produzione), sembra che Sattar sia stato solo un assaggio di ciò che accadrà da quando il paese ha riaperto i cinema al pubblico nella primavera del 2018.
“È un momento interessante”, afferma Mohamed Hefzy, prolifico sceneggiatore e produttore egiziano responsabile di oltre 40 titoli ed ex presidente del Cairo Film Festival, nonché membro della giuria di festival internazionali come il Sundance e la Mostra del Cinema di Venezia. “Il cinema arabo aveva bisogno di essere salvato. E credo che il Red Sea sia questa salvezza, grazie al grande sostegno che offre in termini di fondi. È una sovvenzione davvero generosa. L’Arabia Saudita, in generale, è un’ottima fonte di sostegno”. Così rinvigorente da poter diventare la prossima potenza cinematografica araba, seguendo le orme già consolidate della nazione natale di Hefzy.
Parlare di “cinema arabo” è riduttivo?
“Penso che sia la logica evoluzione della situazione”, afferma Hefzy. “In Arabia Saudita c’è una classe media affamata di cinema, cosa che non accade in altri Paesi. Se guardi il numero di biglietti venduti ogni anno, pro capite, in Egitto, è deludente. Se lo paragoniamo all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti, al Qatar o ad altri paesi arabi, è chiaro che l’Egitto sta soffrendo economicamente in questo momento. Sta succedendo in tutto il mondo, ma in Egitto, a causa della svalutazione della moneta, c’è un’inflazione enorme”.
Questi contrasti rendono evidente che il termine “cinema arabo” può essere piuttosto riduttivo e che la produzione dei molti paesi che condividono la lingua araba è stratificata.
“È un fenomeno sempre casuale”, afferma Alaa Karkouti, analista cinematografico e co-fondatore dello studio indipendente regionale MAD Solutions e dell’Arab Cinema Center (ACC). “Non tutti i paesi arabi hanno un’industria consolidata. Quindi i successi di questi Paesi si basano sugli sforzi degli individui coinvolti”.
Cita il film giordano Theeb del 2015, con un budget di 500.000 dollari, che ha sorpreso molti quando ha battuto i record del cinema locale per un film d’autore, è stato presentato in anteprima a Venezia ed è stato candidato all’Oscar per il miglior film straniero. “Ha ispirato altri registi arabi”, aggiunge Karkouti, “incoraggiandoli a rimanere nel settore”. Da quando è uscito, qualcosa è cambiato. Non dico che sia stato come un tornado, ma ha avuto un certo impatto”.
Da Four Daughters a Banel & Adama: il cinema arabo a Cannes 76
Ora la Giordania, insieme al Sudan, presenta per la prima volta dei film a Cannes. Hefzy, nel frattempo, ritiene che il Nord Africa sia il luogo da cui provengono molti dei progetti più interessanti del momento, “soprattutto Marocco e Tunisia”. Il film tunisino Four Daughters è in concorso, mentre ci sono altri tre film arabi nella sezione Un Certain Regard: i marocchini The Mother of All Lies, Les Meutes e il sudanese Goodbye Julia. Tutti questi film, più il senegalese Banel & Adama – anch’esso in concorso – sono stati sostenuti dal Red Sea Film Fund saudita. Sicuramente tutto questo è un chiaro segno che la sorte del cinema della regione, spesso emarginata a livello internazionale, stia migliornando.
“Non c’è ancora stato un successo mondiale per un film arabo, come quello che abbiamo visto con il cinema coreano, per esempio, o con il cinema messicano, venti o trent’anni fa”, dice Hefzy. “Non siamo riusciti a sfondare come la Cina negli anni Ottanta e Novanta. Ma credo che succederà. Ci sono stati degli spiragli. In Cina, l’ultimo film di Nadine Labaki, Capernaum, ha guadagnato più di 60 milioni di dollari al botteghino. Ma si tratta solo di un film che ha sfondato. Ci vorranno molti investimenti non solo per i film, ma anche per le infrastrutture, le competenze e la formazione. È un processo, e noi ci occuperemo di questo processo in questo momento”.
L’amministratore delegato del Doha Film Institute (DFI) Fatma Hassan Alremaihi è più ottimista. “È una nuova età dell’oro”, afferma. Lo sa bene. Negli ultimi 12 anni, il DFI, l’iniziativa di questo tipo più longeva della regione, ha sostenuto più di 750 film provenienti da oltre 75 paesi, di cui quasi l’80% incentrati sul mondo arabo, tra cui Cafarnao e il film palestinese del 2019 It Must Be Heaven, selezionato per concorrere alla Palma d’Oro. “La nostra missione è quella di incoraggiare e coltivare le voci nuove e indipendenti del cinema della regione. È stato davvero un privilegio far parte di questa nuova era del cinema arabo. Abbiamo riscontrato un enorme aumento della domanda da parte di distributori, rappresentanti e programmatori di tutto il mondo per storie autentiche e diverse che facciano luce su tutti gli aspetti della vita in questa zona, non solo sugli stereotipi che ne derivano”.
Tra commedia e temi sociali
L’allontanamento dai temi che più comunemente ci si aspetta dal cinema arabo sembra essere una parte fondamentale di questo nuovo slancio. Forse sorprendentemente – o forse no, visto il successo inarrestabile di Sattar – il genere più popolare a livello nazionale è la commedia, mentre i film con ambizioni più globali sembrano concentrarsi sul tema del conflitto e del suo effetto prolungato.
“Ovviamente la situazione politica determina sempre la tendenza”, afferma Hefzy. “Si tratta di film sull’immigrazione legale, sui rifugiati o su temi femminili, che sono fantastici. Tuttavia, mi piace molto quando i festival si prendono dei rischi e programmano film che non si basano esclusivamente… sulla loro bussola politica o sul loro orientamento. Penso che questo sia ciò di cui abbiamo bisogno di più. Non importa di cosa parla il film, ma come è fatto e come racconta la storia”.
Il prossimo tassello del puzzle è la distribuzione, che secondo gli addetti ai lavori deve svolgere un ruolo maggiore nell’allargare gli orizzonti del cinema arabo. All’interno della regione, ciò significa aprire un maggior numero di cinema indipendenti per consentire la crescita di una scena artistica.
“Al momento c’è praticamente un solo cinema in ogni paese”, spiega Karkouti. “Mi piacerebbe che una parte dei fondi del Red Sea Film Festival andasse a sostenere i cinema indipendenti”, aggiunge Hefzy. “I cinema devono sopravvivere e abbiamo bisogno di più cinema. Se non abbiamo il supporto per la distribuzione e la proiezione, sarà difficile mostrare i film quando li sosteniamo”.
Il cinema arabo visto dalle piattaforme
Poi, ovviamente, ci sono i canali di streaming, che secondo Hefzy devono aumentare i loro investimenti in contenuti arabi. Sebbene all’inizio del 2022 sia uscito il primo film originale arabo di Netflix, la dramedy Perfect Strangers, e la piattaforma abbia alcune serie originali mediorientali, come la serie drammatica egiziana Paranormal del 2019 – entrambe prodotte da Hefzy – il luminare del settore ritiene che la strada da percorrere sia ancora lunga.
“Sono stato molto felice di lavorare con Netflix su Perfect Strangers, Paranormal e su un nuovo progetto che non è ancora stato annunciato”, afferma Hefzy. “Ma Netflix è stata lenta e Amazon, Apple e gli altri hanno ancora molto da recuperare in termini di produzione e commissione di serie e film nel mondo arabo”.
Quindi, se tutto dovesse andare secondo questi piani, cosa riserva il prossimo futuro al cinema della regione? “Dipende da quale paese”, chiarisce ancora Karkouti. “La crescita più rapida si sta verificando in Arabia Saudita; c’è una certa stabilità in Egitto, Tunisia e Marocco, ma per il resto del mercato tutto dipende dalla situazione politica, dalle finanze e dalla casuale coincidenza di produttori che trovano progetti interessanti”.
Traduzione di Pietro Cecioni
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