È dalla fine che si deve partire per capire cosa è stata la visita di Ken Loach a Roma. Da quel canto spontaneo che si alza intonando Bella ciao, mentre il regista, il mezzo alla folla per un’ultima fotografia di rito, sorride. Siamo allo SpinTime, il palazzo occupato da 10 anni dall’omonima realtà sociale che ospita più 400 persone di 26 nazionalità diverse, insieme a oltre 20 associazioni. E Loach si trova nella capitale grazie a Lucky Red e alla Fondazione Piccolo America per presentare il suo nuovo film, The Old Oak, in arrivo nelle sale il 16 novembre.
Il calore della folla che si è riunita per accoglierlo lo sorprende subito, tanto da impedirgli quasi l’entrata. C’è chi trova posto per terra, chi si schiaccia alle pareti del piccolo auditorium pur di avere la vista migliore sulla sedia dove si posizionerà. E invece lui, per prima cosa, la mette via. Resta in piedi di fronte a tutti, come in una cara, vecchia assemblea, di quelle che forse la Gen Z ha visto solo nei film. Ottantasette anni e nessun inciampo, né fisico né di pensiero: il suo fin da subito è un discorso politico. Un discorso di convinta sinistra, ovviamente.
Il pane e le rose, il necessario e il bello
Il primo riferimento e il primo ringraziamento di Kean Loach sono rivolti alla realtà che lo ospita, SpinTime, un luogo, che come afferma affondando subito la lama contro il suo governo, quello britannico, già fa molto di più del Regno Unito in termini di accoglienza e solidarietà. “Non avrei mai pensato di dire una cosa del genere, io che sono cresciuto nel secondo dopoguerra. Ma oggi c’è gente che non ha casa, che soffre la fame, che non ha sostegno da parte dello Stato. E tutto questo perché lo Stato improvvisamente ha deciso che la povertà è un crimine”.
Il riferimento alla sua filmografia, se se ne vuole trovare uno specifico, è chiaramente Io, Daniel Blake (2016). Gli uomini della working class, abbandonati dal welfare, uccisi dai cavilli burocratici. “Le ho conosciute davvero queste persone”, afferma il regista. “Le ho viste morire. E per l’amor di Dio, se dovete combattere anche voi questa battaglia (contro lo smantellamento del welfare, ndr), fate in modo di vincerla”, afferma tra gli applausi.
Il futuro della sinistra per Loach
Nel suo discorso ininterrotto ricorre una chiara parola chiave: solidarietà, che poi è anche il tema centrale del nuovo film, The Old Oak, storia di una piccola comunità di minatori inglesi improvvisamente abitata da rifugiati siriani che, inizialmente vittime di episodi razzisti conoscono sempre di più l’accoglienza e il senso di unione di una delle realtà storicamente più sindacalizzate e unite della Gran Bretagna.
La solidarietà di cui parla Loach, quindi, è quella che deve nascere dall’incontro fra popoli, nonostante i governi: “È qualcosa che riguarda anche voi qui Italia, credo, l’idea che tutti i problemi dello Stato provengano dalle persone che approdano sulle nostre coste. È lo Stato che ci convince a incolparli, perché solo dividendoci può avere forza su di noi. La nostra, quindi, deve essere una lotta di speranza, non di disperazione”.
Senza temere di apparire banale, cosa che Loach non è mai stato, aggiunge: “E speranza non vuol dire incrociare le dita ed esprimere un desiderio, ma credere di avere la reale possibilità e la forza per realizzare un cambiamento, insieme. Se siamo disperati, invece, non aspettiamo altro che l’uomo forte che cambi tutto per noi”.
Come se avesse toccato un nervo scoperto, questo è il momento in cui, guardandosi intorno, in auditorium iniziano a vedersi degli occhi lucidi di commozione.
Cambiare, sì ma come?
Come si vince, come si cambia? Chiede Ken Laoch ai presenti e a se stesso. Sa già di non avere le risposte, ma prova a darle comunque. Si cambia, afferma, seguendo tre semplici parole, quelle dei primi lavoratori americani sindacalizzati: agitando, istruendo, organizzando. Soprattutto organizzando. E quando questo non funziona, trovando un modo di ristrutturare la società dalle fondamenta. Se nient’altro funziona, l’unica soluzione è la rivoluzione. Ma lo afferma con una calma, una fermezza e una gentilezza che quasi stonano con la forza delle sue parole.
Agitate. Educate. Organize. And keep up the struggle. Saluta così, tra occhi sempre più lucidi. Ed è qui che parte il canto. “O bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao”.
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