È una vita persa per sempre quella che racconta Ken Loach in The Old Oak, sia che si tratti degli ex minatori inglesi di Durham, ormai abitanti di una città fantasma, senza abbastanza cibo né risorse, senza aiuto dalla Stato, sia che che si tratti di quella dei rifugiati siriani, in fuga dal regime di Assad e dalla guerra. Non è detto, però, che non se ne possa ricostruire una nuova, di vita, insieme.
The Old Oak, la vecchia quercia che dà il nome al film di Loach, è infatti l’ultimo spazio pubblico rimasto a Durham, quello in cui si incontrano realtà senza apparenti punti in comune, nemmeno la lingua, ma che “mangiando insieme, restano insieme” e creano una comunità. Come spiegato già da Loach nei precedenti incontri a Roma, per la presentazione del film, The Old Oak racconta la storia di una comunità inglese (quella dei minatori del nord-est, abbandonata dallo Stato, eppure una volta nota per la sua forte rivendicazione sindacalista e politica) all’arrivo dei rifugiati siriani, nel 2016. Nel suo malcontento prospera il razzismo e l’opposizione nei confronti del più debole di turno, del più povero, del più indifeso. Il rifugiato, in questo caso. Ma è nella solidarietà, intesa sempre da Loach come organizzazione razionale e concreta degli ideali della sinistra, che l’unica soluzione ai conflitti è possibile.
Attraverso l’incontro fra TJ (Dave Turner) e Yara (Ebla Mari), i due mondi collimano e trovano un modo per sopravvivere insieme, nonostante le difficoltà. Un grande messaggio di speranza che, come afferma Loach, “non vuol dire esprimere un desiderio e aspettare, ma avere la forza di cambiare le cose”.
Immigrazione, responsabilità collettiva e solidarietà sono quindi i temi su cui si basa The Old Oak, quelli su cui Ken Loach ha risposto all’intervista con The Hollywood Reporter Roma.
Nel film Yara afferma che quando il mondo assiste in silenzio, i regimi vincono. È qualcosa risuona ancora oggi pensando al Medio Oriente. Lei pensa che il cinema, il suo cinema, abbia il potere di cambiare le cose?
Penso che sì, il cinema abbia un potere, ma alla fine un film è solo un film. Serve, però, a creare connessioni reali contro la crudeltà e l’oppressione. Come quelle in Medio Oriente oggi, appunto. Siamo abituati a pensare che tutti hanno il diritto di essere protetti dal diritto internazionale e a tutti sono riconosciuti i diritti umani fondamentali. O la libertà di eleggere i propri governi, vivere in pace e in sicurezza. Chiaramente i palestinesi non hanno quel diritto, non sono difesi dal diritto internazionale, e penso che dovremmo essere tutti d’accordo con il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, quando dice che è tempo che l’Onu si faccia avanti e imponga il diritto internazionale, perché sono stati commessi crimini di guerra che vanno oltre ciò che è successo il 7 ottobre (l’attacco di Hamas, ndr) e di cui è responsabile anche lo Stato di Israele.
“Mangiare insieme per restare insieme”, il senso di solidarietà di questa frase è chiaro nel film. Ma perché proprio adesso ha deciso di raccontare questa storia di immigrazione?
Le questioni intorno all’immigrazione riguardano la mia nazione, la Gran Bretagna, ma gli stessi discorsi e principi si applicano ai paesi mediterranei come l’Italia o la Grecia, dove arriva la maggior parte dei migranti. Le persone fuggono perché sono disperate. Fuggono dalla guerra, dalle carestie, dall’oppressione. E di nuovo, queste sono questioni che dobbiamo risolvere a livello internazionale, collettivamente, con le Nazione Unite. Per arrivare a un giusto accordo che permetta a chiunque di vivere in pace e in sicurezza. È impossibile farlo da soli, individualmente. In particolare perché la migrazione oggi è qualcosa che riguarda direttamente la Grand Bretagna, e gli Stati Uniti, per le loro guerre d’intervento. La nostra guerra illegale in Iraq ha ucciso milioni di persone, ha creato migrazioni di massa. E se è di migrazione che parliamo, non si può lasciare fuori quella provocata dalla guerra in Afghanistan, e così via. Dobbiamo riconoscere la nostra stessa responsabilità in tutto questo. E quando i migranti arrivano, chiaramente nei paesi mediterranei che sono quelli più vicini, dobbiamo dividere le responsabilità e le risorse in modo più equo. E sarebbe solo una soluzione temporanea, perché le vere cause devono essere esaminate tanto quanto le conseguenze.
Questa volta per il suo film ha scelto un finale dolceamaro, aperto. Cosa l’ha convinta a lasciare più spazio alla speranza? In cosa spera lei?
Le persone imparano a conoscersi. E nel film i siriani e i locali devono imparare a conoscersi, seppur a causa di una tragedia. In particolare (riguardo al finale, ndr) quando qualcuno perde un membro della propria famiglia, quando è in lutto, ovviamente ci sarà sempre qualcun altro che si farà sentire, che proverà a fare tutto quello che può. C’è questa nuova usanza, per esempio, di costruire un piccolo santuario fuori dalle case di chi non c’è più. La gente lo fa perché conosce le persone coinvolte, sa quanto significhi per loro esserci e vuole dimostrare la propria vicinanza. L’ho mostrato perché questa è realtà, non è invenzione. Siamo noi esseri umani. Ed è ragionevole dire che siamo generosi nel profondo, lo siamo. E questa è la ragione della speranza. Ed è la risposta alla propaganda delle destre che dei migranti dice “rispediteli in mare”. Questa è la nostra risposta, la solidarietà, la pietra su cui possiamo costruire il futuro.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma