Sophia (Magalie Lépine-Blondeau) è una professoressa di filosofia di 40 anni. Ha una relazione decennale con Xavier (Francis-William Cardinal) fatta di sicurezza e un velo di noia dato da una quotidianità sempre uguale. La sua intera vita viene stravolta quando incontra Sylvain (Pierre-Yves Cardinal), il tuttofare che si sta occupando della ristrutturazione della loro baita in campagna: un colpo di fulmine istantaneo. Ma gli opposti si attraggono? È la domanda che si pone Monia Chokri, regista de La natura dell’amore, film presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes 76 in sala dal 14 febbraio con Wanted in collaborazione con Tinder.
Una storia in cui più che i soldi, suggerisce Chorki, è la cultura a definire le differenze di classe. “Mi interessava capire perché pur vivendo nella stessa nazione c’è una differenza fra chi vive in campagna e chi in città” racconta la regista a THR Roma. “Si vedono le cose in maniera diversa, la cultura è diversa, le interazioni fra le persone sono diverse. Volevo esplorare in che maniera, come e perché l’ambiente nel quale viviamo influenza anche le nostre relazioni personali”.
Il cinema francese ha raccontato l’amore plasmando l’immaginario collettivo. Hai avuto dei riferimenti narrativi e visivi per il film?
Sicuramente Claude Lelouch con Una donna e una canaglia, la storia di un amore tra persone di due classi sociali diverse, e poi sicuramente Un uomo, una donna. Però, soprattutto, ho raccontato questa storia e diretto questo film attraverso il prisma di quello che è il mio territorio, cioè il Québec, dove non ci sono tantissime pellicole d’amore. Ho voluto farlo proprio pensando a questo territorio, a questo paese, piuttosto che riferirmi all’immaginario collettivo che si è formato con i film d’amore francesi.
Nel film suggerisce che più che i soldi è la cultura a definire le differenze di classe. Come ha lavorato in scrittura su questo aspetto?
Sicuramente la questione del territorio, proprio in senso fisico, è una cosa che mi interessava moltissimo. Anche dal punto di vista politico. Mi interessava, cioè, capire perché pur vivendo nella stessa nazione c’è una differenza fra chi vive in campagna e chi in città. Si vedono le cose in maniera diversa, la cultura è diversa, le interazioni fra le persone sono diverse a seconda se si vive in un ambiente rurale o in un ambiente urbano. Volevo esplorare in che maniera, come e perché l’ambiente nel quale viviamo influenza anche le nostre relazioni personali.
E poi nel Québec, e forse in Nord America in generale, classe sociale e denaro non sono sempre così legati. Non è, per esempio, come in Europa dove ci sono antiche famiglie che da sempre sono sia ricche che istruite. In Québec la cosa è un po’ diversa e le differenze sono veramente di natura culturale. È vero che Sophia fa l’insegnante di filosofia e che intellettualmente è superiore. Però, probabilmente, è meno benestante, di Sylvain che, invece, fa un lavoro pratico. La differenza non è tanto nei soldi ma nell’istruzione, nella possibilità di accesso alla cultura. Era questo che mi interessava analizzare sin dalla fase di scrittura.
Ci sono molte scene di sesso che pongono l’attenzione sul personaggio femminile. Come ha deciso di filmarle?
Innanzitutto il sesso esplicito al cinema non è una cosa che mi interessi molto. Anche perché quando mi capita di vedere sequenze del genere poi mi distraggo, vedo soltanto i corpi. Secondo me non è neanche utile e non racconta niente della storia. Per questo film che racconta una storia d’amore e di passione era inevitabile inserire delle scene molto intime. Erano funzionali, delle scene “d’azione”. Nel senso che fanno progredire la storia e servono a far capire a che punto sono i nostri personaggi nel racconto. Sono scene di comunicazione, molto parlate. Ho deciso di non far vedere quasi mai il corpo nudo, soprattutto quello della protagonista, perché non era quello che mi interessava.
Volevo cambiare quello che in genere è il punto di vista che si adotta in questo tipo di sequenze, in cui quello della donna viene sempre visto come un corpo desiderato. Volevo far vedere che era lei quella che desiderava, che era attiva. Molto spesso, e questo fa parte un po’ anche del sessismo e della misoginia che c’è nella costruzione delle scene di sesso, la donna è semplicemente vista come un bellissimo corpo, come l’oggetto del desiderio. L’uomo non è importante sia bello perché è lei a dover essere desiderata e non desiderante. Volevo invertire e decostruire quello sguardo ma non necessariamente passare attraverso l’esposizione del suo corpo nudo.
Negli ultimi anni si parla molto di una nuova figura professionale, quella dell’intimacy coordinator. Era presente anche sul suo set o ha preferito lavorare direttamente con gli attori senza terze figure?
L’ho chiesto agli attori, ma non ne hanno sentito la necessità. Anche se ormai in Quebec è una cosa normale, mi hanno detto di no. Questo perché ci conosciamo tutti molto bene, si fidavano di me, tutto era molto preciso, coreografato, scritto. Quando si fanno scene del genere non si possono lasciare gli attori a loro stessi, bisogna dirgli esattamente quello che devono fare. Si sono sentiti al sicuro e non c’è stata necessità di chiamare l’intimacy coordinator.
Nel film ci sono molti movimenti di macchina e zoom. I personaggi sono spesso ripresi da lontano, quasi spiati, e tra loro e l’obiettivo ci sono porte, finestre, specchi. Perché questa scelta?
Tutto parte dalla voglia di raccontare un amore inizialmente proibito dato che la protagonista è sposata. Non vediamo quasi mai Sylvain a figura intera. Vediamo un profilo, una silhouette. Dietro questa scelta c’è l’idea che spesso, quando ci sono passione e desiderio, spesso non vediamo l’altra persona per quello che è, ma come una proiezione dei nostri desideri. Poi man mano quella persona si scopre, anche fisicamente. E quindi ecco che la macchina da presa lo riprende a figura intera.
Ma, man mano che la storia va avanti, non sempre la scoperta corrisponde a quelle che sono le aspettative e il desiderio. Inoltre mi piacciono molto i documentari sulla natura dove si usa tanto lo zoom perché non ci si può avvicinare agli animali per riprenderli. In questo caso il suo l’utilizzo permette di raccogliere e di filmare molto da vicino le emozioni perché si è lontanissimi fisicamente e quindi non si è invadenti con la macchina da presa e l’attore può sentirsi più libero. Dà una grande libertà di movimento sia al regista che agli attori.
Nel film vengono date molte definizioni dell’amore. Ma come lo definirebbe lei?
Sicuramente la definizione che oggi do dell’amore è molto semplice, anche se è il risultato di un’evoluzione che è venuta fuori con il passare del tempo. Quando ero più giovane pensavo che per essere veramente innamorati bisognasse passare per forza per una grande sofferenza. Oggi mi rendo conto che più stiamo bene con noi stessi, più ci si vuole bene, ci amiamo, meglio si sta con gli altri. Forse è meno passionale e travolgente, però sicuramente è meglio. Quando c’è tanta sofferenza, non c’è amore.
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