Al Gore. Obama. Jimmy Page e Bill Gates. Musicisti, politici, imprenditori. E adesso un attore, Michael J Fox, raccontato nel suo incredibile viaggio umano e artistico: il sogno di diventare una star, il successo negli anni Ottanta, la diagnosi precoce di Parkinson.
Premio Oscar nel 2007 con Una scomoda verità – il documentario sul riscaldamento globale, con l’allora vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore – e autore della miniserie Netflix Dentro la mente di Bill Gates, il documentarista 59enne Davis Guggenheim con Still: la storia di Michael J. Fox (su Apple Tv+ da oggi) parte dalla pagina scritta, la biografia di Fox, per comporre un ritratto “pieno di gioia” dell’attore di Ritorno al futuro (nei due sequel del film, del 1989 e 1990, recitò anche sua moglie, Elisabeth Shue). Un lavoro durato un anno, iniziato in piena pandemia, che ha permesso a Fox di mostrarsi senza il filtro della retorica, e allo stesso Guggenheim di superare quell’”eccesso di cinismo” che lo aveva spinto vicino alla depressione.
Come si è messo in contatto con Fox?
È successo durante la pandemia. Mi sentivo depresso, come tutti. Passavo il tempo sdraiato sul divano, al buio, mentre la mia famiglia rideva e chiacchierava in cucina. Ho cominciato a leggere il libro di Michael e l’ho trovato straordinario, pieno di gioia. Ho chiamato il suo agente e gli ho detto: facciamo un film. Semplice.
La malattia: un tema respingente per il pubblico?
Questo è il punto. Quando ho parlato con Michael, mi ha chiesto una cosa sola: nessun pietismo, niente retorica. Mi ha detto: ‘Non sono una persona patetica, sono resistente come uno scarafaggio. Puoi prendermi a calci, non mi ammazzi’. Ecco, il senso dell’umorismo è il suo modo di spogliare di retorica la malattia. Lo fa molto consapevolmente.
Ha chiesto altro?
Mai. È stato totalmente disponibile. Prima di girare gli ho chiesto come volesse raccontare la sua storia. La via più semplice era, chiaramente, mettere in scena la drammatica vicenda di un ragazzo brillante che si ammala e vede annientata la propria carriera. Sa che mi ha risposto? ‘Che palle’. Non doveva essere un film su qualcuno che ha una malattia.
Quanto tempo avete passato insieme prima di girare?
Abbiamo fatto un paio di incontri via Zoom, eravamo in piena pandemia. Poi, finalmente, un pranzo insieme. C’era anche suo figlio, era una bellissima giornata di sole. Abbiamo parlato tanto. Giuro, non ho mai incontrato un soggetto più aperto al confronto in tutta la mia vita.
Obama, Al Gore, Bill Gates: perché Michael J.Fox?
In quel momento della mia vita cercavo un briciolo di gioia. E ho finito per trovarla nel posto più inaspettato: in un uomo che ha una malattia tremenda, e tutta la felicità che mancava a me. Non mi sembrava possibile che lui fosse così pieno di gratitudine e io così cinico. Fare questo film mi ha fatto tornare felice. Ho riso tantissimo, anche in sala di montaggio.
Quanto è durato il montaggio?
Più di un anno, è stata la parte più importante. L’ho preparato meticolosamente: prima di girare ho appiccicato al muro un centinaio di post-it con gli appunti sulle scene. Quelle riprese dal libro di Michael, quelle con i suoi film, quelle che immaginavo di girare. Montando, i 100 bigliettini sono diventati 40. È il mio metodo.
Al Sundance Film festival il suo film è stato accolto con affetto. Se lo aspettava?
La gente ama Michael. Da una parte perché il pubblico è convinto di conoscerlo. Con i suoi personaggi è entrato nelle nostre case. È uno di famiglia, diciamo. Dall’altra, vederlo in queste condizioni è durissimo. Ce lo ricordiamo tutti da giovane, capace di muoversi agilmente. Adesso ha 60 anni, sembra molto più anziano della sua età e cammina con difficoltà. Eppure il suo spirito è ancora vivace, esattamente come allora. La combinazione fra questi due aspetti credo sia il segreto della sua grande, persistente popolarità.
Cosa rende universale la sua storia?
Qualcuno dira che è l’ennesimo film su una persona famosa. Altri penseranno che è un film sulla malattia. Ma non è così. È una storia incredibile. Fin dall’inizio: era impossibile che un ragazzino canadese, di bassa statura, sognasse di diventare una star. Impossibile che ce l’abbia fatta così giovane. Impossibile che gli sia arrivata la diagnosi del Parkinson a 29 anni. Il fascino di questa storia è la combinazione assurda di tutti questi elementi.
Ha visto Val, il documentario di Leo Scott e Ting Poo (sull’attore Val Kilmer, malato di cancro alla gola, ndr)? Che ne pensa?
Sì, quando ho iniziato il montaggio. Entrambi i film, il mio e il loro, sono pieni di umorismo. Ma Val Kilmer è una persona molto diversa da Michael, è un animale da palcoscenico: filmare la sua disabilità è, diciamo così, più semplice.
Fox ha detto che non arriverà a 80 anni. Cosa prova?
Guardi, proprio ieri abbiamo parlato lungamente al telefono. Lo facciamo spesso. La cosa che ci preoccupa di più, al momento, è che la prima del nostro film è stata cancellata a causa dello sciopero degli sceneggiatori. Le dico solo questo: ogni volta che ci parlo, lui mi tira su. Dovrebbe essere il contrario.
Come conquista la fiducia delle persone che intervista?
Mia madre ha sempre avuto un problema con l’alcol. Da ragazzo ho imparato a “navigare” attraverso i suoi stati d’animo. Quando tornavo a casa e lei era felice, voleva dire che aveva bevuto tra i due e i tre bicchieri. Se era depressa e nervosa, stava tra il settimo e l’ottavo. È così che ho sviluppato la mia sensibilità. Credo di avere una specie di antenna per intercettare le emozioni delle persone. E poi c’è una grande verità: occuparsi degli altri è un modo per non pensare a se stessi. Ed evitare di buttarsi giù.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma