Mean Girls, la commedia di Mark Waters sulla selvaggia giungla dei gruppetti liceali, aveva dialoghi classici e personaggi memorabili tanto da diventare una pietra miliare per la generazione che era adolescente (o appena uscita dall’adolescenza) quando arrivò nelle sale nel 2004, nonché per coloro che l’hanno scoperta negli anni successivi.
Con la sceneggiatrice Tina Fey al timone, il film ha affrontato il passaggio da film a musical di Broadway nel 2018, mantenendo intatto il suo fascino originale e in parte rafforzandolo grazie alla magia espressiva dei personaggi che esplodono in canzoni che rivelano il loro stato d’animo interiore.
Lo spettacolo non sarebbe mai riuscito a tenere sveglio Stephen Sondheim con le sue melodie a regola d’arte composte dal marito di Fey, Jeff Richmond. Ma i testi spesso intelligenti di Nell Benjamin hanno regalato tante risate, e il talento del regista-coreografo Casey Nicholaw ha reso lo spettacolo un’esplosione ad alta energia pieno di insicurezza ormonale, malizia, vulnerabilità e lezioni di vita duramente conquistate. E un cast di prim’ordine non ha di certo guastato.
Tutta l’effervescenza e il divertimento sono stati prosciugati in questa stanca reincarnazione, un musical cinematografico realizzato da persone che sembrano non avere alcuna comprensione del linguaggio musicale cinematografico. I co-registi esordienti, Samantha Jayne e Arturo Perez Jr., sono noti soprattutto per aver collaborato alla serie di cortometraggi di FX Quarter Life Poetry, ma qui il loro lavoro frammentario sembra saldamente ancorato al background dei video musicali di Perez. Lo stesso vale per il coreografo Kyle Hanagami.
Temere le canzoni di Mean Girls
Le canzoni raramente scaturiscono in modo organico dalla storia e più spesso sembrano così goffamente inserite che si arriva a temerle. Quel che è peggio è che la musica è così fastidiosamente sovraprodotta e amplificata in studio che non si percepisce l’intensità del canto spontaneo dei personaggi. In termini di carenze musicali, questo è un punto di non ritorno.
L’ultimo chiodo nella bara è la decisione del team creativo di inquadrare, ove possibile, le canzoni attraverso i social media. L’espediente è utilizzato in modo così insistente che ci si chiede perché l’intero film non sia stato girato su TikTok. Forse sarebbe stato meno fastidioso su uno smartphone.
Il cast, purtroppo, non ha riscattato il film. Degli interpreti, solo Auli’i Cravalho nel ruolo di Janis, l’outsider punk interpretata nel film originale da Lizzy Caplan, sembra sufficientemente nel suo elemento per fare buona impressione.
Un cast sottotono
La più grande delusione, probabilmente, è Regina George, così divinamente interpretata da Rachel McAdams nel film del 2004 e da Taylor Louderman a Broadway che il solo nome è diventato sinonimo di reginetta cattiva, una giovane donna tanto imperiosa quanto splendida. Reneé Rapp si è calata nel ruolo nel secondo anno di programmazione dello spettacolo a New York, riprendendolo qui in quella che, va detto, è la tradizione non proprio eccellente delle liceali sul grande schermo interpretate da ventenni.
Sul palcoscenico, Regina entrava in ogni scena come una bondgirl, avvolta da un bagliore rosa che faceva sembrare la sua bellezza e la sua crudeltà quasi ultraterrene. Qui è cattiva, ma raramente divertente, forse riflettendo un cambiamento nella cultura che ora rende più difficile ricavare comicità dalle frecciate dei bulli.
I numeri che nel musical elevavano Regina al rango di arcicattivo sono stati appiattiti in generici inni all’amor proprio e alla superiorità, così intorbiditi da un mix di suoni pop brutalmente omogeneizzato che metà dei suoi testi sono incomprensibili.
Mean Girls, la trama
La storia tocca tutti i punti noti. Cady Heron (Angourie Rice) è stata educata a casa da sua madre (Jenna Fischer) in Kenya, il che rende il suo passaggio alla North Shore High un forte scossone culturale. Riceve un’introduzione al rigoroso sistema di caste della scuola dai due studenti che ne sono rimasti decisamente fuori, Janis e il suo migliore amico Damian (Jaquel Spivey, la talentuosa star di A Strange Loop a Broadway).
I ragazzi la avvertono di stare alla larga dal trio composto da Regina e dalle sue tirapiedi, Gretchen (Bebe Wood) e Karen (Avantika), descritte da Janis e Damian come “lucide, false e dure”. Ma quando Regina si interessa a Cady – anche se in maniera forse connivente – e la invita a unirsi a loro per il pranzo, Janis e Damian la vedono come un’opportunità per gettare un po’ di fango sulle perfide ragazze.
L’incarico di spionaggio di Cady si complica quando si prende una cotta per il suo compagno di classe Aaron (Christopher Briney), che si rivela essere l’ex di Regina. A una festa di Halloween, dove il costume da sposa cadavere di Cady la rende l’unica esclusa, Regina si riprende Aaron, perché può farlo. Questo porta Cady, Janis e Damian a riunirsi per un piano fatto di vendetta, ma l’indottrinamento di Cady diventa così completo che perde di vista se stessa.
Meno sovversivo dell’originale
C’è qualcosa di deprimente e rozzo in tutto questo, come se Fey avesse raccontato la storia troppe volte per trovarci qualcosa di nuovo, al di là della superficiale ruffianeria da Gen Z dei continui schermi telefonici. Anche il ruolo che riprende dal film originale, quello dell’insegnante di matematica Ms. Norbury, manca di brio.
Un’altra leva del 2004, Tim Meadows, strappa qualche lieve risata nel ruolo del preside. Ma la manciata di star in ruoli secondari, tra cui Jon Hamm nella parte dell’insegnante di ginnastica e l’originale Gretchen di Broadway, Ashley Park, in quello dell’insegnante di francese, sono sprecati o, nel caso di Busy Philipps nel ruolo della madre di Regina, straziantemente sopra le righe.
Sebbene Rice sia brava nei panni dell’inizialmente sprovveduta Cady, nessuno dei personaggi ha una sufficiente profondità da far dimenticare i loro predecessori più incisivi. Il fatto che una delle principali star di Mean Girls del 2004 faccia un cameo prolungato serve solo a ricordare quanto l’originale e il suo stellare ensemble avessero più sovversività, arguzia o cuore.
Anche la sagace visione del film precedente sull’ansia adolescenziale, le gerarchie sociali, la pressione dei pari e le dinamiche di potere si sente appena accennata da questo trattamento poco brillante. Forse il materiale di 20 anni fa non è più all’altezza?
Traduzione di Pietro Cecioni
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