Parliamo di rappresentazione. Da La sirenetta a La regina Carlotta: due mondi diversi, un unico obiettivo

Da una parte Disney, dall'altra Netflix. Da una il mondo marino, dall'altra una corte ottocentesca. Storie e universi differenti per mostrare come integrare polemiche e dibattiti nelle proprie narrazioni. O come non farlo

Alla domanda “Perché mai la sirenetta dovrebbe essere nera?”, la risposta risulta sin troppo facile. Ma al di là dello scontatissimo quanto giusto “perché no?”, è giusto riflettere sulla ragione per cui esiste una domanda così non sense e se e come dobbiamo rispondere a un interrogativo del genere.

L’attenzione alla rappresentazione di minoranze spesso messe nell’ombra ha contribuito alla necessità, in tempi moderni, di rivoluzionare i canoni (caucasici) a cui la filmografia mondiale ci ha abituato. Anche se questo ha richiesto a volte di forzare un po’ la mano. Lo ha dimostrato Cleopatra su Netflix, la docuserie che ha diffuso più scalpore che informazione, diventando un autentico caso. Sicuramente accolto già con un dente avvelenato, che non ne ha favorito il successo sulla piattaforma – per averne la conferma, basta studiarne il rating (il solo 2%) su Rotten Tomatoes. Figlio, ed è utile ricordarlo, anche e soprattutto del razzismo di una parte del Nord Africa per chi, nel continente, ha il colore della pelle nera. 

Fin dall’inizio dell’arte cinematografica, la rappresentazione è stata uno dei fulcri fondamentali per attrarre e affascinare il pubblico. Se ad essere tramandato è stato più che altro l’arrivo del treno alla stazione, bisognerebbe soffermarsi maggiormente sulla meraviglia negli occhi degli spettatori quando, osservando il fascio di luce, vedevano riprodotti i contorni delle figure umane. Spesso vedendo addirittura se stessi, e non in senso metaforico.

Riprendendo le folle in momenti di convivialità cittadina e paesana, le camere da presa hanno reso protagonisti gli stessi spettatori che si sarebbero poi seduti alle fiere a guardare il risultato di quella tecnologia prodigiosa. È da qui che, nel corso del tempo, psicologi e analisti hanno cercato di spiegare l’effetto del riconoscimento del pubblico nell’opera cinematografica. Un vedersi che ha contribuito a formare il concetto di identità, come quando ci si guarda per la prima volta allo specchio.

Da La sirenetta di Disney a Netflix: come vanno le storie

Il live-action della Disney è un esempio di questo tipo di operazione, che va contrapponendosi però al modo in cui viene pensata la rappresentazione nella serie La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton. E la conclusione è che entrambi i prodotti, in maniera diversa, riescono perfettamente nel proprio intento.

Scegliendo come protagonista Halle Bailey, la casa di Topolino ha scatenato una valanga di polemiche, che hanno anticipato di più di un anno l’uscita in sala della pellicola. La decisione di prendere un’attrice nera ha portato alle peggiori, per non dire infime, considerazioni. In fondo al mare non è possibile produrre la melanina, le sirenette sono notoriamente bianche (anche frutto di fantasia, se è per questo…), per non parlare delle tante, presunte infanzie rovinate a trenta, quaranta, cinquantenni, incapaci a quanto pare di poter andare avanti con la propria vita dopo questo affronto.

Halle Bailey è Ariel nel live-action de La sirenetta

Halle Bailey è Ariel nel live-action de La sirenetta

Ed è qui che La sirenetta spiazza tutti. Non discutendo mai del colore della pelle della giovane o giustificando la scelta della protagonista, bensì andando oltre. Nel live-action l’unico pregiudizio di cui la storia tratta è quello di un popolo marino, spaventato dal mondo degli umani, con una sirenetta che è fermamente convinta di poter studiare la terra in superficie, bramando l’amore del principe Eric.

E se di differenze si parla, sono soprattutto generazionali. Sciolte dall’abbraccio riappacificatore tra Ariel e il padre Re Tritone, vero fulcro del conflitto della pellicola, che di preconcetti parla, ma nei termini più alti – e per questo universali – che possano esistere.

L’esperimento (riuscito) de La regina Carlotta

All’esatto opposto, su Netflix, lo spin-off La regina Carlotta inserisce “l’esperimento” all’interno della propria narrazione, entrandone nel vivo e utilizzando furbamente un elemento di discussione che l’ha riguardata per i propri fini creativi.

Al rilascio nel 2020 di Bridgerton la questione del color-blind casting, ossia la scelta di interpreti a ricoprire dei ruoli indipendentemente dall’etnia o dal genere, aveva infervorato tanti presunti professori di storia che non potevano tollerare che una sovrana, con annessa corte, potesse venir rappresentata da gente diversa da quella caucasica.

Tutto in uno show senza alcuna pretesa di verità, fatta per stuzzicare un po’ di fantasia erotica in costume. Che poi, se vogliamo dirla tutta, ci sono anni di studi e illazioni che vorrebbero comunque la moglie di Re Giorgio avere radici straniere.

India Ria Amarteifio è la protagonista della serie La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton su Netflix

India Ria Amarteifio è la protagonista della serie La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton su Netflix

Un prendere il caso che si era creato, soprattutto sui social, sfruttandolo così a proprio vantaggio. Rendendo perciò centrale un argomento che non viene più ignorato (come, in fondo, sperava di poter innocentemente fare il color-blind casting), riaccendendo i riflettori sull’inclusione nei racconti audiovisivi, mettendo il dibattito al centro della trama.

Che sia quindi dalle profondità dell’oceano o da un regno ottocentesco, l’importanza della rappresentazione torna mostrandoci più soluzioni che dissonanze.
Con La sirenetta e La regina Carlotta che ne sono la prova (speculare).