Una bugia per due, parla Rudy Milstein: “Una regia lunga dieci anni, per imparare a ridere di tutto. Anche del cancro”

L’attore racconta il suo esordio dietro la macchina da presa. Una storia ispirata anche alla grande commedia umana di Ettore Scola. Al cinema dal 1° febbraio. L'intervista di THR Roma

L’idea per Una bugia per due nasce 10 anni fa, nel 2013: “Volevo fare una commedia per mettere in discussione la tendenza ad avere successo a ogni costo nella vita. Sulle situazioni in cui crediamo che il fine giustifichi i mezzi”, dice il regista Rudy Milstein a THR Roma. “Volevo anche riuscire a ridere del cancro, pensiero che è nato quando una persona a me vicina, malata, mi disse di smetterla di parlargli come fosse un bambino. Mi sono accorto di come non siamo abituati e non sappiamo parlare alle persone malate”.

Mettendo insieme queste due idee di partenza, Milstein crea una commedia dell’equivoco, in cui il mite e gentile Louis (Vincent Dedienne) inizia a fare carriera nello studio di avvocati in cui è socio solo dal momento in cui rende pubblica la diagnosi di un tumore. Tutti si rivolgono a lui in modo differente, alcuni iniziano a notarlo per la prima volta. La socia principale dello studio, Elsa (Clémence Poésy) decide persino di affidargli una grande causa a difesa di un’azienda accusata di aver causato il cancro a centinaia di persone con i suoi prodotti.

Caso vuole che la diagnosi di Louis sia sbagliata, per un errore del medico, e che quindi dopo il primo impatto traumatico con la notizia il giovane avvocato decida di assecondare gli eventi e non rivelare a nessuno di essere, invece, in perfetta salute.

Un film leggero ma non facile

“Non è stato facile trovare gli investimenti per questo film. I miei produttori mi sono sempre stati vicini e sono stati fondamentali, tuttavia non c’era gente disposta a investire denaro per questo tipo di storia. E non solo. Ho impiegato molto tempo a realizzare Una bugia per due e anche perché non volevo fare un film drammatico né un film triste. Dovevo trovare il giusto punto di vista”.

Da attore, anche teatrale, “recitare e dirigere insieme è un incubo. Perché come regista devi avere tutto sotto controllo, ma come attore devi essere sempre libero. Amo però il momento in cui il regista aiuta l’attore a trovare il proprio personaggio. Quello è l’enigma che mi affascina”. Milstein ritaglia anche un piccolo ruolo per sé in Una bugia per due, il personaggio di Bruno, vicino di casa di Louis, un uomo totalmente privo di emozioni. Bruno è indirettamente ispirato alla sua adolescenza: “Spesso le persone si spaventavano delle mie forti reazioni emotive, delle lacrime improvvise. Così da ragazzo ho imparato a chiudermi in me stesso, indossare una corazza. È qualcosa che ho vissuto ma che al tempo stesso è stato usato in funzione del mio film, non è fine a se stesso”.

Una bugia per due, un percorso di crescita per sé

Ciò che sceglie di raccontare Milstein, prima di tutto, è perciò la storia di un uomo che non conosce bene se stesso: “Pensa di dover seguire le orme dei genitori, diventare un grande e cinico avvocato, avere successo senza curarsi delle altre persone. Il mio film parla anche di tutte quelle scelte sbagliate che si fanno quando non ci si conosce abbastanza, quando non ci si mette in discussione per capire veramente i propri desideri”. Un uomo, Louis, definito spesso anche come “gentile”, aggettivo che Milstein rivela di non intendere come un complimento, tutt’altro.

Il metro attraverso cui nel film si misura la crescente consapevolezza del protagonista è nel rapporto con le due donne che lo affiancano. Elsa, il capo, e Hélène (Géraldine Nakache), la leader dell’associazione di malati di tumore coinvolta nel processo. “La storia di Louis con Elsa non è che un riflesso dell’immagine che lui pensa di dover assumere. Il vero innamoramento, tuttavia, è con Hélène, una persona diversissima da lui. È importante però per me che questo film non venga percepito come una commedia romantica. Non c’è nemmeno un bacio, non l’ho voluto girare”.

L’obiettivo di Milstein è infatti quello di una commedia totale, in grado di raccontare la vita in tutti i suoi aspetti, anche quelli drammatici. Un po’ come faceva Ettore Scola: “Mi piace molto il film C’eravamo tanto amati, per la sua energia, per i suoi personaggi, perché è divertente ma ha anche una funzione sociale. Perché è vita vera”.