Nella terminologia inglese “sick” ha un duplice significato. Nella sua traduzione semplice e immediata la parola sta per “malato/a”, dalla forma più leggera del raffreddore alla più grave di una sindrome che può essere sia fisica che mentale. Nel suo gergo colloquiale, “sick” può descrivere anche un senso di stanchezza e pesantezza che preme sul cuore di una persona. “I’m sick of myself”, ad esempio, può voler dire che una persona è stufa di se stessa, esprimendo un disagio che allontana la concezione della malattia in quanto tale.
Il titolo del film Sick of Myself ha la stessa valenza, doppia e esplicativa. Da una parte il regista e sceneggiatore Kristoffer Borgli mostra come la protagonista Signe, interpretata dalla Kristine Kujath Thorp di Ninjababy e Bastarden, si ammali dopo aver volontariamente ingerito quantità esorbitanti di Lidexol, un medicinale contro l’ansia bandito in Russia per aver causato molteplici casi di malattie della pelle.
Dall’altra come il bisogno spasmodico della giovane, che prende volontariamente le pastiglie, sia dovuto a un modo di essere che rappresenta i casi più patologici di narcisismo. Un atteggiamento borderline che fa male alla sola protagonista, più che a coloro che le stanno attorno, suscitando esattamente il risultato contrario rispetto a quello che aveva sperato.
Famosi, ma per chi?
Signe assume quantità spropositate di Lidexol per essere finalmente al centro dell’attenzione. Ma dell’attenzione di chi? Di chiunque, indistintamente. Degli amici, che sono costretti a venirla a trovare in ospedale quando la medicina/veleno farà effetto, pena la scomunica dal circolo dei conoscenti. Degli sconosciuti, quando elemosinerà i riflettori per essere intervistata dalla stampa locale – ma mi raccomando, scegliete un giorno in cui non è in programma nessuna sparatoria, altrimenti l’articolo finirà in fondo al giornale. E del fidanzato, ladro-artista provetto, un compagno pessimo da avere al fianco, che invece di lasciare, si preferisce cercare di mettere in ombra.
È anche per questo che Sick of Myself, dal marketing italiano, viene venduta come un’anti-commedia romantica. Lo specchio di quanto due narcisismi che si incontrano non possono annullarsi – insomma, non è applicabile la famosa formula del più con più che fa meno, e viceversa – bensì alimentano un fuoco che la protagonista farà letteralmente divampare sul proprio corpo, lasciandole bubboni, macchie e cicatrici.
La seconda opera del norvegese Borgli – produzione di altri connazionali talentosi, coloro che hanno realizzato La persona peggiore del mondo di Joachim Trier – è più focalizzata sull’instabilità del singolo, che sulla disfunzione della coppia. Su quanto l’ossessione per se stessi possa essere ancora qualcosa che non esiste solamente nei quattro angoli di un piccolo schermo, e che si può essere “malati” di sé anche fuori dallo spazio dei social (anche se un bel selfie, bende sulla faccia, non guasta).
Sick of Myself, il male di vivere
Ovviamente lo squilibrio emotivo del rapporto tra Signe e il fidanzato Thomas (Eirik Sæther) è la miccia scatenante di un’instabilità che è però già presente e che Kristoffer Borgli traduce nel maltrattamento della propria pelle, rendendo evidente la richiesta d’aiuto della giovane, che in quelle lesioni vedrà l’occasione della notorietà.
Il raggiungimento della fama, di un cono di luce. Un martoriarsi e farsi “brutta” che vale più del mantenimento e della cura del proprio aspetto. Una svolta interessante nella visione attuale della vanagloria contemporanea. Esattamente all’opposto di un’estetica che, tra filtri Instagram e routine di skin care rigide e assidue, ci vuole belli, perfetti e impeccabili. La vanità assume un carattere insolito in Sick of Myself, e non a caso lo è anche la scrittura del suo autore, che tratteggia però con attinenza l’ego smisurato che serpeggia nella nostra epoca e che mostra come le vie del Signore della Celebrità sono infinite.
Eppure nella ragazza un velo di tristezza si percepisce benissimo, ignorata totalmente da chi le sta attorno. E, la cosa bella, è che viene ignorata anche dal suo regista. Signe entra in una spirale di omissioni e bugie volte a instaurare una competizione sciocca e dannosa con l’altrettanto pomposo Thomas.
Al capolinea delle menzogne
Ed è incredibile come basti un’unica scena, nel pieno del suo decomponimento fisico, per far ammettere alla protagonista il suo dolore: conscia di essere arrivata al capolinea della sua menzogna, quando i benefici sono stati del tutto spazzati via dalle condizioni di salute estreme, Signe realizza di essere “stanca di se stessa” tanto da voler confessare la sua follia e rimediare. E lo fa scrivendo un libro dove ammette i suoi sbagli e i suoi malesseri. Peccato, però, che si tratti soltanto di una fantasia. E peccato che, comunque, sarebbe solamente un’altra mossa per diventare famosa.
Arrivando al paradosso del narcisismo stesso, con tanto di Lidexol che dovrebbe alleviare l’ansia, ma ne acuisce le conseguenze, Sick of Myself contiene in sé un’altra dualità, che è quella della vittima e del suo carnefice, racchiusi nella medesima persona.
Una vittima di quelle che si è portati quasi ad odiare, ma per cui si prova infine la compassione più profonda – Lidexol che è, inoltre, un medicinale inventato, con tanto di pagina ufficiale che lo pubblicizza come se esistesse veramente (e che sconsiglia vivamente di vedere la pellicola: “It’s actually not a good film”). È il dolore come spettacolarizzazione che tormenta la protagonista, riflesso del nostro ego che non si da mai pace. Lo stesso per cui, a volte, siamo disposti a trasformare la nostra vita, non importa se in un (body) horror.
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