The Key, la chiave, come lo storico simbolo impugnato dal popolo palestinese per rappresentare la sua diaspora, dal 1948 a oggi. Questo è il titolo che Rakan Mayasi dà al suo cortometraggio, presentato in Italia durante il 29° Medfilm Festival, che tiene banco a Roma fino al 19 novembre.
Protagonista è una famiglia israeliana, tormentata da un suono misterioso e inquietante che, lentamente, si rivela al pubblico come il rumore di una chiave nella toppa. Come se qualcuno cercasse di rientrare in casa. Metafora chiara e intuibile, amplificata dagli strumenti del cinema, dalla forza dell’audio e dell’immagine, che non hanno bisogno di mostrare tutto. Sanno evocarlo.
A proposito di The Key e del ruolo del cinema palestinese oggi, Rakan Mayasi ha risposto alle domande di The Hollywood Reporter Roma.
In The Key il suo punto di vista, da regista, è palestinese, ma i personaggi sono israeliani. Da dove proviene questa scelta di prospettiva?
I personaggi drammaturgici, quelli che reagiscono al suono (centrale nel cortometraggio, ndr) sono israeliani ma in realtà il protagonista è invisibile. Ed è proprio il suono dietro la porta, quello della chiave nella toppa: il diritto dei palestinesi di tornare a casa. Mi sono sentito molto ispirato da questo aspetto del racconto, poiché i suoi stessi elementi danno spazio e modo di giocare con l’audio e con le immagini.
Il suo cortometraggio è basato, appunto, sull’omonimo racconto breve di Anwar Hamed: cosa l’ha attratta di questo soggetto?
Stavo già lavorando a un corto di fantascienza quando mi sono imbattuto in questa storia e ne sono rimasto affascinato. Molte cose hanno attirato la mia attenzione, tra cui il genere fantasy-thriller, il punto di vista palestinese su personaggi israeliani, il fatto che il suono fuori campo sia la dinamica portante della narrazione, la sottigliezza dell’intera trama e soprattutto il messaggio principale. Il diritto dei palestinesi di tornare a casa, nella loro terra, raccontato in modo nuovo e creativo. Tutti questi elementi mi hanno convinto a contattare subito Anwar Hamed per adattare il testo, perché da una storia audace volevo fare un cortometraggio audace.
La violenza nel corto è sottintesa ma non mostrata, al più la si sente nel rumore degli spari. Quali sono stati i suoi riferimenti estetici nel costruirla?
Era già presente nella storia originale, ed è oggettivo che le armi siano diffuse nella società israeliana, quindi non è un elemento di sorpresa. La violenze nella storia e nel film è comunque costruita in crescendo, in funzione del bisogno drammaturgico di una tensione sempre più percepibile.
Considerando The Key come un sottogenere horror, quello della home invasion, spesso legato a tematiche politiche, la sua estetica è stata guidata dal tipo di messaggio del film?
A me e ad altri 7 milioni di palestinesi della “diaspora”, Israele non permette di tornare nella nostra terra. Sembra esserci una profonda paura del nostro ritorno. Quindi non parlerei di una home invasion, piuttosto di un home return del popolo originario. L’idea stessa di inserire una chiave nella serratura, farla girare provare ad aprire un passaggio è un atto di ritorno, non di invasione. E non c’è alcuna violenza nel tornare a casa. Al contrario, però, è un modo di invadere la coscienza dei coloni. Non dimentichiamo che la chiave è già di per sé uno storico simbolo palestinese, quello del diritto che rivendichiamo dal 1948.
In The Key sono la bambina e poi la madre a sentire il rumore per prime. Poi gli uomini, che subito imbracciano le armi. È una questione di genere? Donne e bambini capiscono di più?
No, la struttura graduale e ascendente era già scritta e pensata così (nel racconto di Anwar Hamed, ndr), Sono convinto che non abbia comunque nulla a che vedere con il genere, è solo una questione di tensione drammaturgica, e come costruirla.
Il suono della chiave, udibile solo di notte, e i sedativi presi per non sentirlo sono metafore di un rimosso collettivo?
Uno dei temi più importanti del film è l’oblio. La società israeliana non ha memoria della sofferenze e dei diritti dei palestinesi. Lo si comprende anche man mano che la trama di The Key si svela. I sedativi si aggiungono per rafforzare quest’idea. Mentre il suono notturno arriva a squarciare le coscienze ignare.
In quanto regista palestinese, dal 7 ottobre a oggi (giorno degli attacchi di Hamas, ndr), pensa che qualcosa sia cambiato nel modo e nello spazio in cui può esprimere la sua esperienza?
La priorità adesso è il cessate il fuoco, io e tutti i palestinesi che conosco siamo emotivamente e mentalmente immersi in ciò che è successo dal 7 ottobre in poi, perciò non ho avuto modo di riflettere su questo. Sicuramente nei media di maggior diffusione, per molto tempo, alla voce della Palestina non è stato dato spazio per farsi sentire. E abbiamo paura che anche negli spazi indipendenti, sulle piattaforme artistiche e nei festival questa voce venga messa all’angolo, censurata. O le venga tolto il diritto di parlare in contesti pubblici e istituzionali. Spero non accada. D’altra parte, però, sembra esserci maggiore consapevolezza. Sempre più persone si stanno interessando alla causa palestinese, in sostegno dei nostri diritti.
Secondo lei, che ruolo ha il cinema nel racconto della Palestina e dei palestinesi oggi?
Il cinema è potente. Trascende molte arti perché porta con sé un’esperienza audiovisiva più forte e completa. I film sono fatti per restare e il cinema ha la capacità di registrare il nostro presente per il futuro. E noi palestinesi non facciamo eccezione in questo senso. Ci sono film palestinesi molto importanti che hanno dato la nostra voce al mondo, perché il cinema non è una notizia in tv. È molto più metafisico e sicuramente di maggiore impatto creativo ed emotivo.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma