L’appuntamento con Ayat Najafi, regista di The Sun Will Rise – evento speciale delle Giornate degli Autori, è davanti il Palazzo del Casinò. Le nuvole e la pioggia hanno lasciato il posto ad un sole inaspettato. Lentamente si crea una lunga fila di accreditati per la Sala Perla che ospita le proiezioni dei film di GdA a tagliare in due la piazza antistante. Il regista iraniano è in ritardo. Ma ha un paio di buone ragioni dalla sua. Il Q&A successivo alla proiezione del suo film si è protratto più del dovuto perché il pubblico continuava a fare domande e, per evitare di essere ripreso da una telecamera, il regista ha scelto di usare un’uscita secondaria per raggiungere il luogo dell’intervista con THR Roma.
Il motivo è tristemente semplice. Il suo film è stato girato in clandestinità. Il nome degli attori che vi hanno preso parte è rimasto anonimo così come i loro volti. Il regime iraniano potrebbe vendicarsi in modi atroci per aver disubbidito alle regole – nessun film può essere realizzato senza il loro benestare – e raccontato al mondo cosa significhi non condividerne i dettami.
Perché The Sun Will Rise parla di Teheran e di quello che è accaduto per le sue strade dopo l’uccisione, da parte della polizia morale, di Mahsa Jina Amini. La sua colpa non aver osservato la legge sull’obbligo del velo. E non a caso il 2 settembre al Lido alle ore 18 sul red carpet del Palazzo del Cinema ci sarà un flash-mob con lo scopo di sensibilizzare i media, i governi e le organizzazioni umanitarie mondiali sulla situazione del popolo iraniano.
Il film ripercorre le tappe degli avvenimenti attraverso un gruppo teatrale intendo a provare la commedia greca Lisistrata di Aristofane. Ma l’ensemble apprende di essere circondato dalle forze anti-sommossa che stanno marciando intorno all’edificio per sedare una grande manifestazione. Nonostante i disaccordi, una cosa è chiara per tutti: l’équipe non vuole continuare lo spettacolo in tempo di rivoluzione. Inoltre, hanno deciso di non lavorare più sotto la censura e le regole del regime.
Ha realizzato The Sun Will Rise in clandestinità. Non ha potuto mostrare i volti degli attori né dirci loro nomi. Ma cosa vorrebbe che il pubblico sapesse di loro e del loro coraggio?
Non mi è permesso entrare in alcuni dettagli perché vogliono che non lo faccia per un’ovvia ragione di sicurezza. Ma sono le persone più straordinarie che abbia mai incontrato nella mia vita. Rappresentano la parte buona della società. Il più grande ha quasi la mia età, ha circa 40 anni, mentre il più giovane ne ha 19. Tutto il dolore e la gioia che vediamo nel film, loro lo vivono nelle loro vite personali, nella quotidianità. Sono stati così coraggiosi da condividerlo con me e poi lasciarlo diventare arte. È la bellezza di questo film per me.
Avevi paura durante la lavorazione?
Il primo giorno sì. Ma poi ottieni così tanta forza dalla consapevolezza che non siamo soli, siamo che la paura scompare.
Molti registi in Iran sono stati arrestati per i loro film e le loro idee. Ha timore che il regime iraniano possa operare delle ritorsioni anche su di lei e gli attori del film?
Sì, ed è per questo che cerco di renderli anonimi le persone. Sono in Europa e sono al sicuro, ma spero che non facciano nulla a loro. Jafar Panahi era sotto controllo, non gli era permesso di lasciare il paese e gli hanno imposto un divieto di fare film. Eppure è riuscito a fare i film più belli di sempre. Ha dato un significato al cinema dal suo arresto nel 2009. Hanno dato la stessa sentenza a Saeed Roustayi, un altro grande cineasta. E spero che anche lui realizzerà film straordinari per dimostrare che siamo più forti e che loro sono il nulla.
Cosa significa per lei essere qui alle Giornate degli Autori e poter condividere il suo lavoro con un pubblico che arriva da ogni parte del mondo?
È un’esperienza folle. Non l’ho ancora metabolizzata. Penso che ce l’abbiamo fatta, è stato un bel risultato. Ed è anche come avere la sensazione che non sei solo in questa battaglia. Venezia è bellissima, ma la vita è davvero piena di brutte cose.
Mahsa Jina Amini è diventata il simbolo di una rivoluzione femminista in Iran. Il suo film è un omaggio a lei e a tutte le donne e gli uomini che sono stati picchiati e uccisi dalla polizia morale?
Sì perché la sua morte è stata l’inizio di una nuova era in Iran e ci riuniamo tutti in onore del suo sacrificio, di quello della sua famiglia, della parte sana della società. Pensavo a molte di queste giovani ragazze uccise, avrebbero potuto essere mie figlie. Quindi questa sensazione quando lavoravo al film. Erano con noi per tutto il tempo delle riprese. Pensavamo a loro e cercavamo di essere la loro voce.
Ha parlato di questo con gli attori?
Sì, certo. Non avevamo una vera e propria sceneggiatura da condividere. Non avevamo personaggi. Ma avevamo idee e ne parlavamo. Le abbiamo sviluppate insieme e abbiamo improvvisato. Ma poi c’è stato un momento in cui abbiamo iniziato a pensare: “Cosa stiamo facendo qui? E perché siamo qui?”. Era una domanda che tornata a più riprese. È stato un processo di auto-esame anche per me. Come artisti, anche se può sembrare un cliché, ci siamo chiesti qual è il ruolo dell’arte nel tempo della rivoluzione. È la domanda che pone questo film.
Cosa ricorda di quei giorni in cui è scoppiata la rivoluzione?
Ricordo di aver visto su Instagram la foto di Mahsa Jina Amini distesa sul letto di ospedale. E poi la prima volta che ho sentito lo slogan delle proteste. “Donne, Vita, Libertà”. È così simbolico, bello, importante, potente. Non l’avevo mai avuta una sensazione così nella mia vita. Poi ho capito quanto siano importanti i combattenti curdi in Turchia, che è un simbolo di resistenza. La rivoluzione è stata un punto di svolta nella storia. Il paese non è più lo stesso. Ed è qualcosa che non puoi veramente raccontare. È come vedere crescere un bambino. Come genitore, lo capisci davvero. Probabilmente però le persone dall’esterno non lo capiscono profondamente.
Lisistrata ha un ruolo centrale nel suo film. É un’opera pacifista e femminista. Abbiamo ancora molto imparare dall’antica Grecia?
Sì. È incredibile, vero? (ride, ndr). Aristofane nella commedia metteva già in discussione che le donne non facciano parte del Senato e della democrazia. Ha questa consapevolezza. È un periodo in cui nessuno sapeva cosa significasse democrazia. Ma c’era un ragazzo di nome Aristofane che ha messo in discussione tutto questo. Anche in Europa dobbiamo chiedere diritti per le minoranze, i rifugiati e le persone che, come me, vengono da contesti diversi. È qualcosa a cui l’Europa deve rispondere. Sono uguale a un cittadino europeo?
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