“Lo prendevo in giro perché era sempre elegantissimo. Anche tra le montagne dello Zimbabwe Montaldo arrivava sul set in cravatta e cappello, distinto come un gentil signore. Aveva la capacità di conoscere anche in Africa i ristoranti migliori. Non si arrabbiava mai, amava la vita. Lo ricorderò sempre con il sorriso sulle labbra”. Così Giancarlo Giannini parla di Giuliano Montaldo, regista con cui nel 1989 girò – insieme a Nicolas Cage – il drammatico Tempo di uccidere, tratto dal romanzo di Ennio Flaiano.
“Fu un periodo bellissimo”, ricorda l’attore, “anche se girare in Africa fu molto difficile. A un certo punto dovemmo spostare il set e spostarci altrove, perché non ottenemmo il permesso di girare con le nostre armi finte. Ma lui non si scomponeva mai. Aveva un modo di vivere il set estremamente naturale. Con me e con Cage si comportava allo stesso modo: aveva una grande dimestichezza con gli attori, dava poche ma giuste indicazioni, come fanno i grandi registi. Quando ti sceglieva, si fidava di te. Era molto facile lavorare con lui: regista attentissimo, la macchina da presa la conosceva bene, sempre sostenuto da ottimi operatori. Era una persona tranquilla. Gli dicevo che non faceva il regista, ma ‘l’accompagnatore divertente”. Abbiamo lavorato insieme alche al Centro Sperimentale. Siamo diventati amici. Era un uomo educatissimo. Una persona straordinaria”.
Ma Montaldo, oltre che regista, fu anche attore: così lo ricorda Michele Placido, che lo diresse nel 1995 nel suo terzo film da regista, Un eroe borghese. “Ci conoscemmo nel 1976, quando Montaldo mi chiamò per fare un ruolo molto importante nel suo film L’Agnese va a morire. Un’opera molto impegnata su una casalinga contadina, che alla morte del marito diventa partigiana. Fu un’avventura magnifica. Pur lavorando su un film così drammatico, Montaldo aveva una carica umana incredibile. Ho imparato moltissimo da lui. È stato uno dei miei maestri, insieme a Marco Bellocchio, Mario Monicelli e Francesco Rosi. A quel tempo non pensavo nemmeno che sarei diventato un regista. Ma quando lavori con certi maestri, è un passaggio naturale”.
Altrettanto naturale la decisione di chiamare Montaldo nel cast di Un eroe borghese: “Per me fu un’emozione straordinaria. Era giusto per il ruolo, aveva una grande disponibilità. Non è mai intervenuto su come avrei dovuto dirigerlo, è stato sempre disponibile. Gli piaceva molto l’argomento, naturalmente: il suo impegno politico e sociale è sempre stato vivo. Montaldo faceva parte di quel grande cinema italiano che sapeva intervenire nella realtà del paese. E questo è forse il più grande insegnamento che lascia ai giovani. Parlo del mestiere del cinema: un’arte che non si fa rimanendo chiusi nella propria bolla. L’impegno, politico e sociale, dovrebbe tornare al centro dell’interesse dei nuovi autori: è il miglior regalo che possiamo farci. E un dovere nei confronti di un irripetibile maestro”.
Lo ricorda anche chi, come Carolina Crescentini – diretta da Montaldo ne I demoni di San Pietroburgo e L’industriale – lo ha incontrato per la prima volta nei corridoi al Centro Sperimentale: “Ci siamo conosciuti alla scuola, avevo vent’anni e lui venne a fare delle lezioni. Dopo un anno e mezzo mi chiamò per I demoni di San Pietroburgo: mi disse che mi aveva studiato, in quel periodo a scuola, che aveva osservato come parlavo con gli amici e correvo per i corridoi. Ricordo che erano 18 anni che non faceva più cinema, perché il film precedente non era venuto come voleva e non se l’era perdonato”.
Per il secondo film insieme, L’industriale, Montaldo chiama anche Pierfrancesco Favino: “Con lui ho toccato con mano il cinema che mi ha spinto a fare questo mestiere – lo ricorda l’attore – Ma vivere la sua amicizia, il suo affetto, la luce dei suoi occhi, è stata la fortuna piu grande. Il rapporto professionale, spesso, diventava amicizia: “Era un uomo divertente, pieno di aneddoti e barzellette – prosegue Crecsentini – In casa sua c’era il bagno con le locandine dei film e la stanzetta che chiamava ‘il barattolificio’, con tutti i premi che aveva vinto. Sul set dava soprannomi a chiunque, anche ai tecnici: li chiamava ‘Tintoretto’, ‘Pinturicchio’. E il rapporto con Vera, la moglie, era straordinario: litigavano ogni trenta secondi e poi si davano milioni di bacetti. Per me loro hanno sempre rappresentato l’amore. Molti ricorderanno Montaldo per i suoi capolavori, ma io vorrei ricordare la persona straordinaria che era e che rimarrà. In lui c’era la poesia dell’antico e una visione moderna: era un ragazzo, aveva quattro volte vent’anni”.
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