L’assassino di Kennedy, Lee Harvey Oswald, entra in sala, si siede lontano dallo schermo, sulle poltrone laterali. Il Texas Theatre dà Un eroe di guerra. Il titolo celebrativo italiano cancella la disperazione di quello originale: War is Hell, un dimenticato dramma anti-militaristico sulla Guerra di Corea, narrato dal veterano-star Audei Murphy, che dalla seconda guerra mondiale si era portato dietro più medaglie dei suoi commilitoni, una certa fotogenia cinematografica e la fastidiosa necessità di tenere una pistola sotto il cuscino per riuscire a dormire.
Nel buio della sala che nasconde le fattezze, nel suono avvolgente che silenzia il clamore fuori, e nelle storie che interrompono il flusso della vita, Oswald forse per qualche secondo si perde nel film e smette di pensare al 35° presidente degli Stati Uniti, al quale ha appena sparato al cranio.
Nella storia del cinema il botteghino è stato spietato con registi, produttori, attori, che non lo hanno saputo soddisfare. Nessuna clemenza dunque per chi sgattaiola in sala senza pagare, come aveva fatto Lee Harvey Oswald il 22 novembre 1963, sessant’anni fa. L’assassino di Kennedy entra in sala alle 11:36, sono passati sei minuti da quando il presidente è stato dichiarato morto. Gli spettatori nel Texas Theatre non sanno niente, assorbiti come sono dalla storia di Un eroe di guerra, e non si rendono bene conto di essere appena entrati nella Storia, intontiti dalle luci accese dalla polizia che si accinge ad arrestare Oswald.
Proprio per quel biglietto rubato, un negoziante di scarpe lì di fronte si era insospettito e aveva alzato la cornetta del telefono. La storia dei testimoni dell’omicidio di Kennedy mescola il cinema all’abbigliamento. Era un sarto Abraham Zapruder, ucraino trapiantato a Dallas. Nel 1949, Zapruder aveva aperto una sartoria al 501 di Elm Street, affianco al Texas School Book Depository dal quale Oswald aveva sparato il suo Carcano Modello 91, il fucile utilizzato fino alla fine della guerra dall’esercito italiano.
Il 22 novembre, il sarto aveva con sé la sua Bell & Howell Zoomatic in otto millimetri, un’ottima cinepresa per il 1963. Fino alla fine degli anni Cinquanta, la Bell & Howell aveva dominato il mercato americano delle macchine da presa cinematografiche, ma anche la maneggevole Zoomatic avrebbe lasciato presto il segno nelle mani di Zapruder.
Il sarto aveva deciso di filmare la parata presidenziale che sarebbe passata proprio sotto il suo ufficio. Come Oswald, Zapruder inquadrò nel mirino and shot. Girò il filmino amatoriale più importante di tutti i tempi, nell’olimpo del documentario insieme all’Arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei Lumiere e le immagini radio del primo allunaggio. Non aveva la più pallida idea di cose fosse il giornalismo partecipativo, ma ne stava diventando il padre.
L’assassinio di Kennedy diviene un fatto cinematografico nel momento stesso in cui avviene. Il Zapruder Film è il primo filmato della storia ad essere analizzato maniacalmente, fotogramma per fotogramma, fino a quando diventa un oggetto magico, capace di mostrare nelle macchie di colore quello che l’uomo ci vuole trovare.
Gli anni Sessanta sono quelli della modernità cinematografica, delle nouvelle vague, gli anni in cui il film non è più uno strumento capace di raccogliere e cristallizzare il reale ma diventa uno specchio, un test di Rorschach. E allora il primo film a parlare davvero della morte di Kennedy è Blow-Up, il verbo che significa sia allargare (un’immagine) che far esplodere, il thriller di Antonioni che non lo era, tutto sulla capacità delle immagini di mentire, o meglio, di farci mentire a noi stessi.
La trilogia multi-autore Blow-Up, La conversazione e Blow Out rimarrà alla storia come la più grande messa in crisi della verità meccanica, della capacità del cinema e del sonoro di registrare il reale. Come Oswald e come Jack Ruby che gli sparò, l’immagine deve nascondere qualcosa, l’immagine è bugiarda. Un decennio dopo, Watergate renderà l’ossessione per le macchinazioni una costante della New Hollywood e dei suoi figli: Tutti gli uomini del presidente, Perché un assassinio, Chinatown, Serpico, I tre giorni del Condor.
Già dal 1973, i discorso sui complotti si sublimano in complotto vero e proprio, col film Executive Action, scritto da Dalton Trumbo, che ipotizza che dietro l’assassinio del presidente ci fossero dei magnati del petrolio. Il caso più clamoroso di ossessione rimarrà quello di Oliver Stone e il suo JFK – Un caso ancora aperto, elenco romanzato di tutti gli indizi dietro alla teoria che Oswald non fosse l’unico cecchino. E la stessa teoria distrae continuamente Alvy Singer dalla ragazza che lo prega di venire al letto a fare l’amore, in Io e Annie.
https://youtu.be/ZNrUAzwU5hE?si=f29Ktho5Mh3uAnjk
Quello di Dallas sarà un trauma difficile da elaborare. Gli assassinii politici degli anni Sessanta resero la violenza al cinema progressivamente sempre più presente. Lo spartiacque di Gangster Story, il cui finale così violento e inaspettato vede i corpi di Bonnie e Clyde martoriati dai proiettili, era ispirato al filmato di Zapruder, per stessa ammissione del regista Arthur Penn.
Tutta la cultura popolare ripasserà poi sull’omicidio di Kennedy, come snodo chiave della storia americana: la Marvel da sola lo ha attribuito sia al Soldato d’Inverno che a Magneto. Nel romanzo di Stephen King – poi miniserie – 11/22/63, un uomo approfitta di un varco temporale per impedire ad Oswald di uccidere Kennedy, ma (attenzione: spoiler) quando torna a casa, trova un mondo apocalittico causato dall’inettitudine di Kennedy al suo secondo mandato.
Gli occhi più umani e sensibili hanno deciso di distogliere lo sguardo dal sangue per guardare il viso di Jackie Kennedy: non solo nel dimesso film di Pablo Larraín o nel corale Parkland, ma già dal documentario Faces of November di Robert Drew, che al funerale di Kennedy stilava un elenco doloroso dei volti dei presenti, in lacrime.
“Noi ci andiamo al funerale?”, chiede Bobby Draper al padre Don in Mad Men. La serie HBO è una guida moderna agli anni Sessanta. Quando arriva l’annuncio della morte del presidente, Don sta entrando in ufficio. Decine di telefoni squillano ma nessuno risponde. “Che diavolo sta succedendo?”, chiede, ma nessuno risponde. Stanno tutti guardando la televisione.
https://youtu.be/H4VT2_n-ltw?si=nnlmPDb-PC3Hm9jR&t=30
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