Nel 1996, chi scrive fu inviato dal suo giornale di allora (l’Unità) a seguire le Olimpiadi di Atlanta. Appena arrivati sul posto, ci servì da viatico un libro che campeggiava in tutte le librerie della città (era uscito da pochissimo): Imagineering Atlanta, di Charles Rutheiser, Verso Books. Sul sito dell’editore è ancora acquistabile. È un libro interessantissimo, scritto un po’ nello stile dei cultural studies ma pieno di storie e di curiosità, che analizza l’immagine che Atlanta ha tentato di dare di sé all’America e al mondo.
Atlanta è una metropoli poco nota in Europa, non ha il fascino di Los Angeles o Chicago o San Francisco o Las Vegas o, da qualche anno, Seattle. Ma è, ben più di Miami (che ormai è una città ispanica), la vera custode della memoria del Sud, del vecchio Dixie. Ed è una città che, grazie alla CNN e alla Coca-Cola, era riuscita ad assicurarsi le Olimpiadi nell’anno del loro centenario, “rubandole” ad Atene.
Il libro spiegava, e spiega, come Atlanta abbia costruito una leggenda di se stessa che è in buona misura basata sulle memorie antebellum (il Sud prima della guerra civile) e in particolare su Via col vento, libro e film. Un intero capitolo è dedicato alle varie Tara (la tenuta dove vive Rossella O’Hara) sorte nella campagna intorno alla città, e costantemente visitate da masse di turisti che sognano di incontrare i personaggi del film (in Georgia, “interpretare” Rossella O’Hara e Rhett Butler è un mestiere remunerativo, un po’ come fare il sosia di Elvis a Las Vegas). Ogni Tara si propone come “la vera Tara”, tutti ci credono… e nessuna lo è, perché Tara non esiste! È un’invenzione di Margaret Mitchell, la scrittrice di Via col vento.
Imagineering Disney
Se vi sembra di aver già sentito storie simili, avete ragione. E se le avete anche viste, siete stati a Disneyland (va bene anche EuroDisney, Parigi). Quando entrate a Disneyland siete accolti da Topolino, Paperino e Pippo: costumi sotto i quali si nascondono figuranti (si spera) ben pagati. C’è di più: lo strano verbo usato da Rutheiser per il titolo del suo libro, imagineering, è un termine disneyano.
Se aprite il sito (ufficiale), leggerete che “Walt Disney Imagineering è la forza creativa dietro alle memorabili esperienze Disney, capace di unire e ispirare le persone oltre i confini geografici e generazionali”. Su Wikipedia, alla voce “Imagineering”, leggiamo invece: “L’imagineering (da “imagination” e “engineering”) è la realizzazione di idee creative in forma pratica. Il termine è stato registrato come marchio da Disney Enterprises Inc. nel 1990″.
La parola è quindi di proprietà della WD Company ma esisteva già, fu coniata dai creativi di Alcoa Corporation (il principale produttore di alluminio negli Usa) nel 1940. Disney l’ha fatta propria. Immaginazione+ingegneria: nulla potrebbe definire meglio la filosofia della Disney.
Imagineering significa creare mondi di fantasia con l’ausilio della tecnologia. Il culmine di questa filosofia, ovviamente, è proprio Disneyland. Il parco a tema inaugurato il 17 luglio 1955 fu al centro dei sogni e degli sforzi di Walt Disney dall’inizio degli anni ’50. Altri facevano i film: lui supervisionava, controllava tutto, ma intanto pensava a Disneyland. Là dentro, nella sua immaginazione/ingegneria, doveva esserci il mondo. Il West, lo spazio, le fiabe, i personaggi dei fumetti. E tutto il mondo poteva diventare “disneyano”.
In Italia l’abbiamo capito meglio di altri: i geniali disegnatori dell’edizione italiana di Topolino (a cominciare dalla triade dei grandi: Romano Scarpa, Giovan Battista Carpi, Luciano Bottaro) misero la filosofia disneyana al servizio di grandi parodie dei classici della letteratura: ed ecco nascere Paperin Fracassa, Paperin Furioso, Michele Topoff, la Paperopoli Liberata, i Promessi Paperi e tanti altri capolavori. Anche Ariosto, Tasso, Manzoni possono diventare Disney. Anche Omero: Pier Lorenzo De Vita (un altro gigante) disegnò una Paperodissea ambientata però nel Far West. E il cerchio si chiude…
Il Disneysmo come pensiero
Potremmo chiamarlo “Disneysmo”: è il vero pensiero dominante dell’America del ‘900. In America, l’idea del parco a tema è ovunque. Las Vegas è un parco a tema con due milioni di abitanti: magari è poco disneyano, visto che i “temi” sono il gioco d’azzardo, i matrimoni e i divorzi rapidi e il sesso a pagamento (tutto legale), ma i grandi hotel che riproducono l’Egitto, il Medioevo, i Caraibi con tanto di pirati, l’antica Roma e le calli di Venezia sono vere e proprie “attrazioni” in stile Disneyland. Per certi versi anche New York è un parco a tema (almeno Manhattan) il cui tema è… New York, e tutto ciò che New York è nell’immaginario collettivo.
Arte, cinema e grattacieli: immaginazione+ingegneria. Imagineering. Walt Disney è il vero creatore dell’immaginario americano, il pensatore che ha formato l’ideologia profonda del paese al pari di Thoreau, di Emerson, di Jefferson, di Whitman, di Melville, di Lincoln, di Roosevelt e di Barnum (contate fino a cento, se vi sembra che il nome di Barnum sia incongruo: cambierete idea). È l’idea dell’America come forza centripeta che assorbe tutte le culture del mondo per ricrearle a propria immagine. È Hollywood, con tutta la sua storia. Del resto il jazz e il rock’n’roll, le forme di musica americana autoctona, vengono dal blues (musica africana) e dal country (musica anglo-irlandese).
Una filosofia che si nutre d’Europa
La cosa affascinante è che il “Disneysmo”, filosofia americana al mille per mille, si nutre di Europa. E qui basta citare qualche fonte. Biancaneve e i sette nani: una fiaba dei Grimm (tedeschi). Bambi, forse il film che Disney amava di più: un romanzo di Felix Salten, scrittore austro-ungarico. Fantasia: musica europea! Pinocchio: un romanzo italiano che i disegnatori ambientano in uno scenario che sa molto di Svizzera, comunque di Alpi. Cenerentola: una fiaba di Perrault (francese).
Poi arriva, prepotente, la cultura britannica: Alice nel paese delle meraviglie (Lewis Carroll), Peter Pan (il Big Ben, Londra), La carica dei 101, Mary Poppins (sempre Londra), La spada nella roccia (il ciclo arturiano), Il libro della giungla (Kipling), Robin Hood… Con Gli aristogatti si va invece a Parigi, ma non tutti sanno che in originale Romeo (nello strepitoso doppiaggio italiano “er mejo der Colosseo”, con la voce del toscano Renzo Montagnani) si chiama O’Malley e parla con un forte accento irlandese, mentre sono ovviamente molto “british” le mitiche oche Adelina e Guendalina Bla Bla.
Solo dopo la morte di Walt, nel periodo post-Sirenetta (il film che segna nel 1989 l’inizio della cosiddetta Disney Renaissance) il “Disneysmo” si aprirà a culture non eurocentriche in film come Aladdin (Arabia), Pocahontas (i nativi americani) e Mulan (Cina), o addirittura non umane come Il re Leone, bestseller con interpreti esclusivamente animali (e parliamo di animali non “antropizzati”, come in Robin Hood).
Con Walt Disney in vita, il “Disneysmo” è un’operazione culturale lampante e molto raffinata: paga un grande tributo alla tradizione europea, soprattutto a quella inglese – in una sorta di colonialismo di ritorno – assorbendo però tali tradizioni in uno story-telling profondamente americano.
Certo, esistono anche film americani fino al midollo, come il super-rimosso Song of the South (censurato da Disney+ e praticamente invisibile) che racconta un Sud degli Stati Uniti utopico in cui schiavi neri e padroni bianchi vanno d’amore e d’accordo. Ma Disney, da bravo americano, guardava all’Europa per sembrare più acculturato di quanto non fosse. E attraverso i modelli europei, imponeva al mondo un modello americano di grande efficacia.
Al punto che in Topolino nella seconda guerra mondiale, storia a fumetti pubblicata nel 1942, il nostro topo preferito sconfigge Hitler, perché c’è un’Europa del mito e un’Europa reale da combattere. Tutto questo ben prima di Bastardi senza gloria di Tarantino (ma due anni dopo Il grande dittatore di Chaplin, sempre bene ricordarlo).
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma