Sullo sfondo delle dolci colline umbre, a pochi chilometri dagli Studi di Papigno dove è stato girata La vita è bella, oggi tristemente inutilizzati , si è svolta la seconda edizione del Film Business Think Tank (FBTT), un incontro annuale, durante il quale si ragiona della situazione attuale e prospettica del settore audiovisivo, non solo italiano, in un confronto alla pari tra operatori del settore. “È una formula che trovo per certi versi innovativa per l’Italia questo incontro fra i responsabili media o quello delle produzione con un taglio prettamente economico che di solito viene messo spesso in seconda battuta perché si parla sempre del prodotto e delle sue caratteriste”, tiene a precisare Alberto Pasquale, direttore di Umbria Film Commission, organizzatore dell’evento.
Anche quest’anno la tavola rotonda informale, animata da alcuni dei principali giornalisti specializzati e dagli stakeholder dell’audiovisivo, ha affrontato con profondità e passione temi cruciali per la produzione di film e serie. La revisione del tax credit annunciata dal ministero della cultura sta creando molto dibattito. I produttori chiedono stabilità nella regolamentazione e certezza nelle tempistiche. Mentre gli investimenti in contenuti – specie quelle delle piattaforme streaming – si sono drasticamente ridotti dopo la bolla dovuta alla pandemia.
A questa seconda edizione hanno partecipato Federico di Chio, EVP Strategy and Corporate Marketing di Mediaset Group, Andrea Occhipinti, Presidente di Lucky Red, Marta Donzelli e Gregorio Paonessa di Vivo Film, Marco Grifoni, Chief Financial Officer di Palomar, Marina Marzotto, Amministratore Delegato di Propaganda Italia, Jaime Ondarza, CEO di Fremantle Southern Europe & Israel, Francesco Bruni, regista e sceneggiatore, Barbara Petronio sceneggiatrice e produttrice, e Antonella Tiranti, dirigente regionale del servizio Turismo, Sport e Film Commission Umbra.
La tavola rotonda del Business Think Tank
Dal dibattito sono emerse alcune indicazioni sugli interventi più urgenti da attuare per poter sfruttare al meglio i contributi statali, trasformandoli da sostegni assistenzialisti (quali appaiono anche nella percezione comune) a rinforzi, volani verso produzioni sempre più rispondenti al gusto del pubblico: prima fra tutti la stabilità delle regole e la certezza delle tempistiche e del quadro normativo entro cui muoversi.
“Una grossa fetta dei fondi provenienti dal tax credit vengono assorbiti dalle produzioni straniere che vengono a girare in Italia, poi alla serialità e solo una piccola parte va al nostro cinema”, prende la parola Andrea Occhipinti. “Il tema reale è l’eccesso di produzioni che accedono al credito perché considerati film, ma che in realtà film non sono. Quindi c’è a monte una sbagliata interpretazione di quello che è considerato cinema”.
“Che il tax credit abbia urgente bisogno di correttivi tutti i produttori, ma anche l’Apa, l’Anica e le associazioni più indipendenti sono anni che hanno formulato delle proposte molto concrete e specifiche per migliorare questo strumento – prende la parola Marta Donzelli di Vivo Film – bisogna però anche ricordare come nasce l’investimento pubblico nel cinema. L’eccezione culturale è alla base di tutte le leggi e normative europee per cui gli stati da sempre storicamente investono nella produzione di opere cinematografiche, cosa che non accade per altre forme creative come i libri. Non si può associare in maniera quasi meccanica la qualità di un’opera in base ai risultati del box office. Quindi, visto le polemiche di questi giorni, non si può associare il valore del tax credit semplicemente alla capacità che hanno i prodotti di incontrare il favore del pubblico. Questo non vuol dire che a monte non ci dobbiamo porre il problema di chi guarderà l’opera cinematografica”, conclude l’ex presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia Roma.
“Il contrasto è più tra l’industria cinematografica che deve avere una sua continuità perché fa degli investimenti, perché crea dei posti di lavoro, perché produce cultura e la burocrazia. Con l’attuale regolamentazione non c’è nessuna certezza di tempi e di decisioni – interviene Jaime Ondarza, CEO di Fremantle Southern Europe & Israel – per cui ci sono dei momenti in cui attirare investimenti in Italia, magari per coproduzioni è diventato difficilissimo”.
“Il tema della certezza è un elemento importante perché consente una pianificazione dei costi – aggiunge Marco Grifoni, Chief Financial Officer di Palomar – mentre l’incertezza, dovuta appunto alla lentezza e all’indecisione burocratica , è già di per sè un aggravio di costi che impatta ancora di più sulle produzioni e sulla capacità di investire dei produttori”.
“L’incapacità di assolvere a tutte le richieste, alle numerose domande per mancanza di personale o anche fare semplicemente i dovuti controlli perché manca forza lavoro per farli, è un danno a tutto il nostro comparto – interviene Marina Marzotto – non mi riferisco solo al tax credix ma anche sugli automatici che sono un sistema meritocratico sono indietro di tre anni, mentre i selettivi hanno un ritardo medio di 18 mesi. Se siamo arrivati a questo punto è perché non c’è stata e non c’è una gestione puntuale dei finanziamenti”, conclude l’amministratore delegato di Propaganda Italia.
I problemi degli autori
“In questo momento ci sono enormi limiti di formazione e di accesso alla creatività, per come funzione adesso il sistema è impossibile finanziare le proprie idee. C’è uno scollamento totale tra pubblico e produttori italiani. Manca la capacità e la visione collettiva collegata alla società di captare le tendenze – irrompe nel dibattito Barbara Petronio – a partire proprio dall’approccio iniziale tra chi scrive e il produttore, che ha quasi sempre poco rispetto del nostro ruolo autoriale. Tutto questo perché in Italia, a differenza dell’America il progetto non parte quasi mai dal contenuto ma da un sistema di relazioni personali che il produttore ha con determinati investitori”, conclude la vincitrice del David di Donatello per la migliore sceneggiatura originale nel 2017 per Indivisibili di Edoardo De Angelis.
“È stato molto faticoso far accettare a chi di dovere che scrivessi e facessi la regia della mia serie, perché secondo il loro sistema industriale le due cose non potevano andare di pari passo. Ho trovato anche molta invadenza creativa anche se ho sempre avuto molto rispetto di chi trova i finanziamenti per un film e i loro consigli”, aggiunge Francesco Bruni, pluripremiato sceneggiatore di numerosi film e regista della serie Tutto chiede salvezza su Netflix.
L’oligopolio della distribuzione
“Altro problema è che il cinema si fa in Italia principalmente grazie a Rai Cinema, Sky e Mediaset. Questa concentrazione, questo potere decisionale in mano a loro, che sono realtà verticali, per cui poi distribuiscono e gestiscono anche tutti gli altri diritti, secondo me è un limite perché avendo pochi editori si hanno pochi punti di vista – continua Andrea Occhipinti- in Francia, che è un esempio virtuoso, c’è un tessuto vastissimo di società che possono avere accesso ai finanziamenti per il cinema e hanno tutta una serie di possibilità per raccimolare autonomamente i fondi necessari per poter fare il film”, conclude il presidente della Lucky Red.
Le conclusioni Film Business Think Tank
L’attivazione del fondo di garanzia fermo dal 2016; la tutela delle piccole realtà produttive rispetto all’eccesso di concentrazione costituito dalle società che operano verticalmente dalla produzione alla vendita dei diritti TV; il contenimento dei costi di produzione, aumentati del 30% negli ultimi anni soprattutto per la presenza di set internazionali – fenomeno però attualmente meno impattante. Non ultima, l’attenzione verso i talenti creativi e la ricerca di contenuto vicino alle esigenze e alle tendenze del pubblico.
Questi i temi emersi al termine della tavola rotonda voluta da Alberto Pasquale a cui abbiamo chiesto di tirare le somme dell’incontro.
Cosa è emerso dall’incontro di quest’anno?
Volevamo capire qual era il punto di vista dei produttori, distributori, broadcaster nazionali e internazionali e degli autori sul tema caldo della riforma dei finanziamenti al cinema paventata dal Ministero della Cultura. Tutti sono d’accordo che bisogna intervenire in qualche modo. Sul come magari ci sono ancora un po’ di distinguo. I film si fanno per essere visti da qualcuno e questo nodo è stato sollevato a più livelli.
Quale argomentazione l’ha colpita maggiormente?
Non vorrei fare torto a nessuno. Qualcuno ha lanciato accuse sul principale finanziatore committente, quindi a monte, gli autori invece sui produttori, i produttori a loro volta sui broadcaster o su chi li precede nella catena del valore. C’è comunque una sorta di ingratitudine verso la mano che ti alimenta, questo potrebbe sembrare paradossale ma è interessante che le osservazioni più forti siano venute fuori dagli autori verso i produttori, mi sarei aspettato più in direzione dello Stato. Anche loro hanno voglia di confrontarsi direttamente con il pubblico o a casa non importa, ma senza troppi condizionamenti e arrivarci magari anche dignitosamente, non solo dal punto di vista economico ma anche della proprietà proprio intellettiva che spesso viene cambiata ad uso e consumo del committente. Il compromesso purtroppo, del quale a volte lo stesso autore è contento, perché ha comunque bisogno di una controparte, c’è sempre stato nel mondo del cinema, non è che Fellini & C. facevano i loro film avendo carta bianca.
Tutti d’accordo invece sull’incertezza che regna sovrana nel settore.
Esatto, la tempistica di applicazione delle regole, cioè i calendari devono dare certezze. Ma anche la ridefinizione di alcune delle regole.
Oggi anche le riprese di una sagra possono essere considerate documentario e quindi meritevoli di finanziamento?
Il problema però è che quando giustamente si auspica la limitazione del perimetro, bisogna anche definire in maniera precisa cos’è e che cosa non è meritevole di finanziamento. Perché se le maglie sono larghe tutti entrano e allora questo può diventare un rischio perché chi è dentro tende a lasciare fuori i nuovi entranti. Questo è quello che tutti dicono ma difficilmente poi mettono nero su bianco chi ci può stare o non ci può stare.
È il legislatore che deve definire cos’è un film o un documentario?
Quando collaboravo con il ministero come consulente uno dei problemi era la proprio definizione di documentario che non c’era da nessuna parte. Come definisco il documentario? Cos’è una docufiction? Quindi tornando al suo esempio della sagra, una cosa è riprendere un evento e basta, altro è interpretarlo o ricrearlo.
Dentro le sagre e fuori il genere horror. Le sembra normale?
Un genere che in Spagna è tranquillamente finanziato dallo Stato senza nessuna vergogna. In Italia avevamo una tradizione horror grazie anche a Dario Argento che ha fatto scuola in tutto il mondo ma potrei citare anche altri nomi. Oggi manca una scuola di scrittura perché quello è un genere molto specialistico e il pubblico lo capisce quando ti stai improvvisando in quel genere lì. Opere che si esportano facilmente e relativamente poco costose. Paranormal Activity è basato su un’idea semplicissima. Film che non hanno bisogno di un cast straordinario, si basano su idee spesso semplici e piacciono al pubblico giovanile.
Alla luce di quello che è venuto a fuori dal Film Business Think Tank cosa succederà nel settore?
Ci sarà sicuramente un cambiamento. Nel breve periodo magari un ridimensionamento. Se vogliamo citare Darwin, non vince il più forte, vince chi si adatta meglio. Andrà avanti chi riuscirà ad adattarsi alle novità. Ci sarà un processo di selezione molto più attento, sempre sapendo che i film non sono un successo scritto, non si può saperlo in anticipo. Il problema rimane l’azzardo morale, quelli che pensano ‘io tanto i soldi li trovo facilmente, poi il film come viene viene. Intanto lo faccio e ci guadagno già facendolo e non vendendolo’.
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