Quasi felici, ma i soldi sono pochi. Trenta milioni in dieci anni, tre all’anno. Dall’incontro organizzato al ministero della cultura con gli operatori delle industrie creative e culturali, emerge una timida soddisfazione, alla luce però di alcune evidenti lacune, perlopiù economiche. Prende il via la nuova legge sul made in Italy, una proposta “apripista”, con eventuali margini di crescita (in cui gli operatori sperano), volta alla promozione e alla tutela delle produzioni italiane.
L’ampia norma – pubblicata in gazzetta ufficiale a fine dicembre – coinvolge anche i settori dal cinema, al videogioco, passando per la moda, le gallerie e la musica, e per aprile arriverà con i decreti attuativi. E in sala Spadolini del ministero della cultura, il 6 febbraio, non presenziava solo una rappresentante del dicastero di via del Collegio Romano, cioè la sottosegretaria Lucia Borgonzoni (Lega), ma anche una rappresentanza del ministero delle imprese e del made in Italy (Mimit) e degli affari esteri.
L’obiettivo? La valorizzazione delle imprese italiane, certo, ma anche la promozione di un’immagine contemporanea del paese all’estero. In pratica? Esportazione. Un paese, afferma Cecilia Piccioni, vice capo di gabinetto alla Farnesina, di “Dante Alighieri e Michelangelo, ma anche di astronauti”.
E in questo piano strategico di promozione all’estero, l’attenzione del governo e del ministero per le imprese culturali e creative “è massima”, come conferma Borgonzoni. Ma il dicastero della cultura pensa di uscirne apparentemente senza approccio ideologico, puntando più sul pratico. E mette le mani avanti.
Il cortocircuito dell’audiovisivo
Per il settore dell’audiovisivo, la retorica del made in Italy e l’omonima legge rappresentano l’ennesimo passaggio confuso in una serie di cortocircuiti comunicativi del governo, dello stesso ministero della cultura e del Mimit.
“Il paese deve essere più aperto ad attrarre il flusso di investimenti dagli Stati Uniti rispetto a paesi concorrenti come la Spagna”, afferma Amedeo Teti, capo dipartimento politiche per le imprese al Mimit. Il riferimento è alla prossima riforma del Tusma, su cui il governo sembra piuttosto diviso.
Come precedentemente riportato da The Hollywood Reporter Roma, gli Streamer (Netflix, Prime Video, Paramount, Disney+ e Warner Bros. Discovery) sono indaffarati nel lobbying, e hanno chiesto – nel corso di una commissione cultura e trasporti di Montecitorio – meno obblighi di investimento (al momento al 20% del fatturato da investire in prodotti italiani) e meno regolamentazione.
L’esempio della Spagna, con il 5% di obblighi di investimento, alletta le big dello streaming più del modello francese, molto simile al nostro. E mentre Fratelli d’Italia sembra contrario a un eventuale abbassamento (anzi rincarando la dose al 25% nel 2025) per ragioni di tutela della “cultura nazionale”, la Lega invece tende la mano.
La voce degli indipendenti
“I grandi vogliono addirittura abbassare le obbligazioni, per noi ovviamente andrebbero alzate, al fine di mantenere il ruolo di cultura e creatività delle piccole- medie e microimprese”, spiega a THR Roma Simonetta Amenta, produttrice e presidente di Agici, associazione generale industrie cine-audiovisive indipendenti, in riferimento alla prossima riforma del Tusma. “Inoltre sarebbe importante che un’impresa mantenesse i diritti della quota che mette in un progetto, adesso questa quota non viene mantenuta”.
“È importante che nelle riforme venga inserito che ci sia almeno una corrispondenza tra quanto viene investito e quanto viene riconosciuto in diritti”, aggiunte Amenta. E “fondamentale” è anche la ridefinizione di produttore indipendente, “ormai molto datata”.
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