“Pensa se potessimo sentire il rumore del mare. È l’unica cosa che manca a Damasco per essere la città più bella del mondo” (Nezouh, di Soudade Kaadan)
“Harka”, la parola magrebina che indica il movimento. “Harka”, il vocabolo scandinavo per forza e resistenza. La stessa radice, agli estremi opposti dell’Europa, per un termine che oggi, nello slang di chi parte, indica un concetto complesso che li riassume entrambi: “harka”, ovvero “attraversare illegalmente il Mediterraneo con una barca”.
Una parola che il cinema ha scoperto un anno fa, al Festival di Cannes, con Harka del britannico-egiziano Lotfy Nathan, uno dei tre film tunisini – altrettanti gli italiani – nel cartellone del festival francese.
Una pellicola in cui l’harka nel Mediterraneo è l’opzione da scongiurare: piuttosto che emigrare in Germania, il giovane Ali resta in Tunisia sbarcando il lunario col contrabbando di benzina. Non finirà benissimo. Così come non andrà a buon fine nemmeno il viaggio di Sam, protagonista di un altro film tunisino, L’uomo che vendette la sua pelle di Kaouther Ben Hania (quest’anno in concorso a Cannes con Le figlie di Olfa) . Pur di emigrare, dalla Siria al Belgio, accetta di farsi tatuare un visto Schengen sulla schiena per farsi esporre nei musei d’Europa. In vetrina.
Western marocchini e vampiri albanesi
Al centro di un singolare fermento creativo, che lambisce le coste di tutti i paesi affacciati sul Mare Nostrum, il cinema del Mediterraneo mette il mare al centro e le migrazioni accanto. Le rivoluzioni, le guerre, i barconi, la crisi, il cinema dei salvati e dei sommersi: l’attualità ne trascina la produzione. Con esiti spesso sorprendenti.
Non solo “neorealismo arabo”, come viene definito, con un’etichetta commercialmente respingente, nei circoli cinéphile. Il cinema mediterraneo si racconta con il neo-western e la satira politica (i marocchini Le Miracle du Saint Inconnu e Abdelinho), il thriller poliziesco (il tunisino Ashkal), il dramma giudiziario e il polar (gli algerini Pour la France e Abou Leila), il sesso e il tabù (l’egiziano Il caftano blu), il rap e l’hip hop (il marocchino Casablanca Beats), persino i vampiri (l’albanese After Dark).
La prima coproduzione italo-libanese della storia, Under construction di Nadim Tabet – coprodotto dalla Abbout Productions di Georges Schourcair con Alien Films – sarà un horror: le riprese italiane si svolgeranno in Toscana, per dieci giorni, il prossimo ottobre.
Anche la Siria, straziata dalla guerra, trova una voce originale: travolge Netflix con la storia vera de Le nuotatrici di Sally El Hosaini, a fine 2022 tra i primi dieci titoli della piattaforma in 88 paesi, e sorprende con Nezouh di Soudade Kaadan. Una commedia per famiglie piena di grazia e di ironia, ambientata in una casa appena bombardata a Damasco, secondo l’esperienza personale della regista: nata in Siria, emigrata in Libano, rifugiata a Londra, Kadaan ha tutta la famiglia ancora là.
Dal Nord Africa alla Spagna, dalla Grecia all’Albania, il Mediterraneo è un fiorire di storie, personaggi e autori. La Tunisia e il Marocco si affacciano agli Oscar. La Spagna vince Berlino, l’Egitto è premiato a Cannes. Grecia e Turchia scoprono nuove voci. Israele domina la serialità, la Siria sbanca la piattaforma. All’appello manca qualcuno: il paese che, di quel mare, è esattamente il centro.
Briciole d’incassi nel Mediterraneo
“Ti piace il tuo paese?”. “Sì”. “E cosa ti piace di più?”. “Mia figlia”. (Mediterranea, Jonas Carpignano)
Pur essendo circondata dal Mediterraneo, l’Italia il Mediterraneo non lo vede. Nel senso letterale del termine. Dei 498 film distribuiti in sala nel 2022, 58 arrivano dalla Francia, 10 dalla Spagna, nessuno da Israele, Grecia, Marocco, Algeria, Tunisia (dati Cinetel sui film di prima visione).
Il Mediterraneo approdato al cinema nel nostro paese, quasi sempre grazie alla Francia, resta poco in sala e produce incassi altrettanto invisibili: 8.567 euro per Casablanca Beats, 24.170 euro per il libanese Memory Box, 50.899 per il tunisino Un figlio. Briciole.
Portati in sala dalla distribuzione indipendente – Wanted, Movies Inspired, Cineclub Internazionale, Academy Two, Ubu, Trent Film, Vamyn le più attive – i film del Mediterraneo hanno solo una carta da giocare: la scarsa reperibilità dei titoli sulle piattaforme. L’unico modo per vederli, insomma, è al cinema. Oppure ai festival: il MedFilm Festival di Roma, dal 1995 l’unico in Italia a occuparsi dei film dell’area, il Festival del Cinema Africano d’Asia America Latina- FESCAAAL, la Mostra del Cinema di Venezia.
“I festival sono un’ottima piattaforma, ci permettono di ottenere copertura dalla stampa e di farci conoscere dai partner europei”, raccontava a marzo il produttore libanese Schourcair, durante il panel di Incontri organizzato da IDM a Merano. “Quello che ci manca non è la visibilità, ma il pubblico. È difficile essere competitivi in sala con film che non superano il mezzo milione di budget”.
Il problema dell’invisibilità, infatti, non è solo distributivo. Il cinema italiano – presenza solida in Nord Africa fino agli anni Ottanta, dall’Otello di Orson Welles alle scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill – coproduce poco con il Mediterraneo, Francia esclusa. A differenza di Parigi, dove dal 1984 esiste un fondo “Sud Cinema” per finanziare le coproduzioni nell’area, l’Italia non ha mai sviluppato un fondo specifico.
I partner dell’Italia nel Mediterraneo
Più che la volontà culturale, a mancare è quella politica: “Il fondo Sud Cinema è nato dalla collaborazione tra il ministero della cultura francese e quello degli affari esteri”, spiega Alessandra Speciale, direttrice del Fescaaal e selezionatrice della Mostra di Venezia. “Da noi non c’è mai stato niente di simile per sviluppare un interesse mirato”. Dal 2019 esiste tuttavia in Italia un bando da 5 milioni di euro per le coproduzioni minoritarie, fortemente voluto, fanno sapere dal Ministero della Cultura, “dai produttori più giovani, under 40, che parlano le lingue e frequentano i festival internazionali”.
Ogni anno vengono sostenuti così, per un massimo di 300.000 euro a film, una cinquantina di progetti: nel 2022 i partner mediterranei dell’Italia sono stati la Spagna, l’Albania e la Grecia, con Israele unico paese extraeuropeo insieme alla Tunisia (Aisha, di Medhi Barsaoui, produzione Italia/Francia/Tunisia). L’Italia coproduce col Mediterraneo, preferibilmente, se il Mediterraneo è Europa. E tuttavia con la Tunisia, dal 2018, esiste anche un fondo di co-sviluppo da 280.000 euro, che ha sostenuto finora 12 progetti.
Uno solo ha tagliato il traguardo delle riprese: il documentario “sul soffocamento del Mediterraneo” Breath, di Ilaria Congiu (Italia/Tunisia/Senegal), pronto per il 2024. Trentamila euro sono andati invece a gennaio al documentario Tracce di italianità di Habib Mestiri, sull’architettura italiana a Tunisi. Un solo vincitore. Ma anche l’unico a presentare domanda.
“I paesi europei si aspettano da noi storie di vittime o semplicemente il folklore”, diceva a Merano l’egiziana Marianne Khoury, da 40 anni nell’industria con la sua Mist International Films. “Quando ho provato a vendere ai broadcaster europei The Times of Lara, un film su Laura Lorella, la ballerina italiana che ha educato alla danza quattro generazioni di ragazze del Cairo, mi hanno risposto che era troppo poco egiziano”.
Uno e centomila. E poi, la Francia
La mancanza di fondi nei paesi minoritari, l’instabilità politica e un misto di sospetto e preconcetti da entrambe le parti sono i maggiori freni per la collaborazione: l’Italia ignora ciò che avviene al di là del mare, e il Mediterraneo meridionale preferisce rivolgersi a Francia o Qatar.
Quello che non manca, nel paese, è l’interesse degli autori: il Mediterraneo e le migrazioni sono temi del cinema di Gabriele Salvatores, Andrea Segre, Emanuele Crialese, Gianfranco Rosi, Jonas Carpignano e Daniele Vicari, e ricorrono sia nel nuovo progetto di Matteo Garrone, Io, Capitano (Francia/Italia) sia nella prossima serie Orizzonti di Sky (Italia/Germania), ispirata a Bilal, il libro di Fabrizio Gatti sul suo viaggio sotto copertura fra i migranti sulle rotte fra Africa ed Europa.
L’assenza dell’Italia dalla mappa cinematografica del Mediterraneo è particolarmente significativa. Anche perché se il cinema del Mediterraneo ha una caratteristica unificante e originale, è proprio quella di avere un’identità non riconducibile a un singolo paese. I film del mare non esistono “da soli”, ma insieme. Sono coproduzioni, anzi patchwork di coproduzioni che arrivano a coinvolgere fino a sette paesi per un solo progetto.
Per Open Arms – La legge del mare di Marcel Barrena, sull’arrivo dei migranti sull’isola di Lesbo, si sono unite Spagna e Grecia, per Harka Francia, Lussemburgo, Tunisia e Belgio, per il turco Burning Days di Emin Alper Turchia, Francia, Germania, Paesi Bassi e Croazia, per L’uomo che vendette la sua pelle praticamente un record: Tunisia, Francia, Germania, Belgio, Svezia, Turchia e Cipro.
E così via attraverso spericolate congiunture capaci di superare le più ostiche barriere geopolitiche. A guidare le “cordate”, quasi sempre, è la Francia. Paese leader della produzione di cinema di qualità extraeuropeo, da qualche anno non è l’unica: se un tempo il cinema magrebino era appannaggio delle coproduzioni francesi, e gli interventi avevano un sapore neocolonialista, oggi arrivano contributi e attenzioni anche da altri paesi europei, grazie a fondi e produttori interessati a partecipare a produzioni minoritarie.
Le piattaforme nel Mediterraneo
“Chi di voi sa nuotare scelga una persona che non sa farlo. D’ora in poi sarà responsabile della sua vita” (Le nuotatrici, di Sally El Hosaini)
Le piattaforme, nel prossimo futuro, potrebbero fare la differenza, a livello distributivo e non solo. Netflix, Amazon e le “sorelle”, nei paesi del Mediterraneo meridionale, tendono ad entrare in produzioni già avviate o a intervenire in stadio di acquisizione di diritti.
Ma lo scouting sul territorio funziona e dà i suoi frutti, come nel caso delle marocchine Laila Marrakchi e Houda Benyamina, registe della serie Netflix The Eddy, girata a Parigi insieme all’enfant prodige franco-americano Damien Chazelle. Attraverso il Netflix Fund for Creative Equity, in partner con Afac (fondi per il cinema arabo) Netflix ha stanziato un anno fa 250.000 dollari per sostenere il lavoro delle autrici dell’area araba e mediterranea, mentre a dodici anni dal successo dello show egiziano Ayza Atgawez, l’attrice tunisina Hend Sabry ha ripreso, nella serie originale Netflix Finding Ola – rinnovata per una seconda stagione – il ruolo che l’aveva resa famosa all’epoca: quello di una Bridget Jones della borghesia egiziana che sogna di sposarsi prima dei 30 anni.
Sempre Netflix è il principale motore del ritrovato interesse europeo per film e serie turche: negli ultimi cinque anni sulla piattaforma sono stati lanciati oltre 40 contenuti turchi, tra film e serie (quest’anno la serie Shahmaran e il film 10 Giorni tra il Bene e il Male si sono classificate tra i primi dieci titoli in 50 paesi tra cui l’Italia), e nel corso del 2023 sono in arrivo altri prodotti: la soap opera The Tailor, la serie adattamento del Frankenstein di Mary Shelley, Creature, il film Chokehold, (in anteprima mondiale all’Istanbul Film Festival) e la commedia Last Call to Istanbul.
Il tag #mediterraneo sulle piattaforme ancora non esiste, ma potrebbe essere questione di tempo: l’harka dei contenuti – è chiaro – è più veloce di quello delle persone.
L’articolo è stato modificato il 10 luglio 2023 alle ore 17:20.
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