Gli ultimi tre giorni del cinema italiano sono stati un thriller politico in alcuni momenti persino poco credibile. Rumors, tabelle clandestine che si dicevano arrivare dal Ministero della Cultura, voci di un ministero, di un governo e di un audiovisivo spaccati in due (la Rai meloniana contro il MiC leghista), smentite e infine una lettera scovata da il quotidiano Domani del Ministro della cultura Gennaro Sangiuliano indirizzata al Ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti in cui il primo offriva tagli – solo al settore cinema – più consistenti di quelli richiesti dal secondo.
Una situazione paradossale che ha portato anche l’ultimo regista italiano ad aver vinto un Premio Oscar a dire la sua, a protestare contro “qualcosa che non si era mai visto”. Può dirlo forte, lui, che i tagli al cinema, e non solo al tax credit, sono un errore madornale. Lui che ha appena finito di girare la sua ultima opera cinematografica, a Napoli, un film Fremantle, ancora senza titolo, prodotto da Lorenzo Mieli per The Apartment Pictures (del gruppo Fremantle), Anthony Vaccarello per Saint Laurent, Ardavan Safee per Pathé e lo stesso regista per Numero 10 (poteva chiamarsi diversamente la sua società di produzione?).
Secondo le note di regia del cineasta parlerà della”vita di Partenope, che si chiama come la sua città, ma non è né una sirena, né un mito. Dal 1950, quando nasce, fino a oggi. Dentro di lei, tutto il lunghissimo repertorio dell’esistenza: la spensieratezza e il suo svenimento, la bellezza classica e il suo cambiamento inesorabile, gli amori inutili e quelli impossibili, i flirt stantii e le vertigini dei colpi di fulmine, i baci nelle notti di Capri, i lampi di felicità e i dolori persistenti, i padri veri e quelli inventati, la fine delle cose, i nuovi inizi. Gli altri, vissuti, osservati, amati, uomini e donne, le loro derive malinconiche, gli occhi un po’ avviliti, le impazienze, la perdita della speranza di poter ridere ancora una volta per un uomo distinto che inciampa e cade in una via del centro. Sempre in compagnia dello scorrere del tempo, questo fidanzato fedelissimo. E di Napoli, che ammalia, incanta, urla, ride e poi sa farti male”.
Napoli, a cui il regista, con questo film, ha fatto un gran bene. Sarebbe interessante ricordare a Gennaro Sangiuliano, ad esempio, alcune cifre interessanti sulla ricaduta economica in Campania (Napoli e Capri, soprattutto) dell’opera stessa. Oltre 8,5 milioni di euro spesi sul territorio – il dato è stato estrapolato dal consuntivo post riprese, superiore di 2,5 milioni rispetto a quanto preventivato – per alberghi, location, personale (sia artistico che troupe) e fornitori. Sono state impiegate 2300 persone nella lavorazione, divise tra personale artistico campano (figurazioni e attori, ben 2000) più 300 componenti della troupe tra personale tecnico e aggiunti.
Per intenderci, l’impatto della Davis e della Coppa America sulla città è stato nettamente minore (e nel secondo caso c’è stato un esborso del pubblico di quasi 10 milioni di euro).
Senza voler essere complottisti, è davvero sospetta una lettera che colpisce un solo settore, il cinema. Perché, secondo lei?
Io sinceramente non so se ci sia un intento preciso nel voler colpire il cinema, non mi voglio mettere a fare dietrologie, polemiche, non credo sia costruttivo e lascia il tempo che trova. Però se ci pensi c’è un risvolto positivo in questa vicenda così sinistra.
Quale? Sinceramente è difficile trovarne uno.
Che nel bene o nel male il cinema è ancora importante, è al centro dell’attenzione. Poi io non sono un politico, ma è impossibile tacere di fronte a un ministro che chiede di tagliare più di quanto gli venga richiesto, è una dinamica assolutamente anomala.
Forse hanno provato a far trapelare la notizia per “vedere l’effetto che fa”, sembra essere tutto rientrato. O quasi
Sono contento se questa intenzione è cambiata, o almeno ammorbidita, però ripeto è un segnale stravagante e autolesionista.
E dovrebbe far riflettere tutti noi che facciamo questo lavoro.
Da ambienti più populisti si spara sull’assistenzialismo al cinema. Nasce da qui questo attacco?
Intendiamoci, questo lavoro si fa anche senza il Ministero della cultura, ma fortunatamente il tax credit, e credo sia questo il punto, è proprio una misura che non è assistenzialista e si è chiesto di lasciarlo e anzi sostenerlo in quanto è una misura che ha un valore prima economico e poi culturale, prima di tutto sostiene un settore che impiega tantissimi lavoratori. Il tax credit non viene erogato in base a decisioni discrezionali, obbedisce a criteri e meccanismi precisi e oggettivi e in quanto tali totalmente democratici.
Dal 2016, dall’arrivo del tax credit, è cambiato tutto in meglio quindi?
Non è un mistero che venivamo da anni bui, in cui i film si facevano sulla base di altri criteri: onestamente da anni mi sembrava che tutto stesse andando per il meglio. Poi ovviamente non vuol dire che i film sono tutti belli, che abbiamo eliminato la bruttezza, ma si è sicuramente creato un meccanismo virtuoso che ti consente sia di fare cultura, sia di portare un tornaconto economico alla comunità.
Come nel suo ultimo set a Napoli: 2300 lavoratori coinvolti, più di 8,5 milioni di euro investiti nel territorio. Un’iniezione importante di risorse all’intera comunità. Perché interrompere un meccanismo che nel peggiore dei casi raddoppia i soldi pubblici investiti e che in alcuni momenti arriva anche a moltiplicarli per venti?
Appunto, trovo che rinunciare a tutto questo o limitarlo sia incredibilmente masochista. Non posso commentare motivazioni o meccanismi, non è il mio lavoro. Io faccio i film. Se sono esperto di qualcosa, e non ne sono sicuro, è di questo, non di politica o economia.
Di sicuro in questo attacco proditorio c’è quella rabbia populista che si crea contro i presunti privilegiati. Penso al cinema, ma anche al calcio. Un ministro dell’Economia, Tremonti, anche se poi ha smentito d’averlo detto, pronunciò la frase “con la cultura non si mangia”.
C’è un vecchio equivoco secondo il quale questo tipo di lavori sarebbero tutti legati ad una dimensione mondana fatta di smoking e di cocktail, io lo vedo anche sul mio lavoro. Non hai idea di quanta gente voglia venire a trovarmi sul set, pensando che lì accada di tutto, come fosse un’eterna festa sul modello de La grande bellezza. Devi vedere che delusione si dipinge sulle loro facce quando vedono che è un luogo di lavoro duro e sudore, quando davanti a loro corrono persone esauste che non si fermano mai e che lavorano 10 ore al giorno. Stupiti mi dicono “è completamente diverso da come me l’aspettassi”.
Pensano ai festival, ai tappeti rossi, alle feste ma questo lavoro è fatto di professionalità, impegno, abnegazione. Il ministro, con i tagli a questo settore, penalizza chi lavora 10 ore e sta dietro le quinte, centinaia di migliaia di persone, non registi e attori. Non so da dove nasca questo equivoco, forse dal fatto che tutti noi siamo stati disposti, soprattutto all’inizio, anche a fare questi lavori gratuitamente, guadagnando nulla e spesso rimettendoci del denaro. In nome di una passione: è successo a te, a me, a tutti. Questa passione è stata scambiata per privilegio ed è passato il messaggio che siamo tutti benestanti, eternamente in smoking.
Potesse scrivere lei una lettera a Sangiuliano, quali sarebbero le parole che gli rivolgerebbe?
Me ne guardo bene, io non spiego niente a nessuno, ci mancherebbe. Sangiuliano ha scritto tanti libri e sa anche cos’è il cinema, i motivi di quello che ha scritto non li so e non li voglio sapere, non mi piace fare illazioni e speculazioni, ma è un dovere commentare le sue parole. Molto spesso ci si dà i pizzichi sullo stomaco e non si parla, ma in questo caso credo sia doveroso dire molto semplicemente e chiaramente che quelle parole non vanno bene, non c’è un precedente in merito, io non me la ricordo, ripeto, una cosa del genere. E sono in giro da parecchio. In questo senso è una cosa che fa impressione.
C’entra anche l’accusa, ormai anacronistica, al romanocentrismo del potere cinematografico?
Devi chiederlo a un produttore, io ne ho uno che mi consente di pensare solo a creare, a girare e si occupa di questi problemi così difficili. È una domanda a cui non so rispondere, una questione su cui non mi sono mai fermato a riflettere e anche ora che mi poni il quesito, non saprei dirti, non ne cavo un ragno dal buco.
Allora parliamo del film che hai finito di girare qualche settimana fa. Come sta andando?
Non parliamone altrimenti sembra un’intervista dove io prendo a pretesto i possibili tagli al tax credit per farmi pubblicità.
Lasciamo perdere Gennaro Sangiuliano, allora. Passiamo al suo sottosegretario con delega al cinema all’audiovisivo Lucia Borgonzoni, che potrebbe aver detto una cosa condivisibile: modificare il tax credit in favore dei più indipendenti, con meccanismi meno favorevoli alle opere più commerciali che possono trovare le risorse sul mercato
Questa è un’ovvietà, è giusto se puoi trovare le risorse sul mercato non cercarle nel pubblico. Ma è un tecnicismo su cui non posso essere preparato, devi chiederlo sempre al produttore di cui sopra che per lavoro mi leva le incombenze di tutte queste difficoltà economiche. Lui saprebbe dirti di cosa ha bisogno la produzione di un film, se le opere con budget più alto e più possibilità di trovare finanziamenti privati possono rinunciare ai soldi pubblici, se chi ha un maggiore appeal commerciale può rinunciare al tax credit. A logica però posso dire che spesso una detrazione come quella il produttore, ottenendola su un film più commerciale, poi la “investe” magari in un’opera d’autore o un esordio.
Il finanziamento pubblico diretto, non la fiscalità agevolata, dovrebbe dedicarsi solo a indipendenti, giovani ed esordienti?
Ripeto, se uno è in grado di stare sul mercato, attraverso le risorse private, non si vede perché dovrebbe intaccare le risorse che possono essere destinate alle opere dei giovani o ai film più difficili. Ovviamente sono d’accordo su questo, io stesso quando ho potuto spesso non sono ricorso ai finanziamenti pubblici: quando ho avuto la forza di stare sul mercato non ci ho neanche pensato. Ripeto, questa è una battaglia che non combatto per me che fortunatamente posso lavorare indipendentemente da questi meccanismi, ma per un mondo che merita rispetto. E un altro tipo di attenzione.
E quando è invece ricorso al pubblico?
Quando ho fatto Il Divo, ad esempio, nessuno lo voleva e allora lì l’investimento del pubblico – perché se qualcosa porta più benefici alla comunità di quanto sia stato speso dallo Stato, è un investimento – è una garanzia di libertà, consente all’autore di parlare di temi, raccontare storie che il mercato rifiuta per qualche motivo. Basterebbe il fatto che quel finanziamento rappresenti la garanzia dell’indipendenza dei contenuti. Ai tempi de Il Divo esisteva un sistema di punteggio che rendeva abbastanza oggettive le ragioni del finanziamento. Avevo i requisiti, mi hanno assegnato una somma. Non mi sembra un sistema che vada penalizzato neanche questo.
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