“Negli ultimi due o tre anni c’è stato molto più spazio per le opere prime. E questo ha portato a nuovi punti di vista lontani da quelli a cui siamo abituati”. Gianluca Santoni, classe ’91, dopo aver diretto alcuni corti come Indimenticabile (2019) e Non se po’ scappà, con il quale nel 2021 si aggiudica il premio Rodolfo Sonego, debutta al lungometraggio con Io e il Secco presentato in concorso ad Alice nella Città – in sala la prossima primavera con Europictures – per il cui soggetto aveva vinto il premio Solinas. “Anche se nel mio caso in particolare abbiamo lavorato per per molti anni a questa storia e ci è voluto molto tempo prima di trovare qualcuno che credesse in questo film, con l’intenzione di volerlo realizzare davvero”, sottolinea parlando con THR Roma.
Scritto a quattro mani con Michela Straniero, il film racconta la storia del piccolo Denni (Francesco Lombardo) che, per salvare la madre dalla violenza del padre ingaggia un superkiller. Ma in realtà è solo il Secco (Andrea Lattanzi), un innocuo sbandato con un gran bisogno di soldi.
Il film parla di violenza domestica ma non la mostra mai. Ne vediamo solo le conseguenze. È stata una scelta presente fin dall’inizio?
In qualche modo sì, ma la verità è che non abbiamo iniziato a scrivere pensando di parlare di violenza domestica. Non abbiamo scelto il tema sociale per poi pensare alla storia. Siamo partiti da un’idea: il paradosso di questo bambino con una mente considerata innocente che vive il conflitto di voler difendere la persona che ama di più al mondo, sua madre, dalla violenza di quest’uomo terribile che è suo padre, e di volerlo fare attraverso la violenza stessa. Ci siamo resi conto che dietro quest’idea c’era tantissimo da raccontare.
Ad esempio il racconto della violenza come eredità. Quello che bisognava salvare non era solo la madre del bambino ma la stessa innocenza del piccolo Denni. Questo ci ha portato a non mostrarla mai, perché eravamo più interessati agli effetti sul volto della madre. Ma soprattutto sulla mente del bambino. La lotta che volevamo raccontare era quella della scelta che viveva Denni tra l’essere uno che corre dietro alla violenza come suo padre o qualcuno che è riuscito a sfuggire da tutto questo. Ad essere un uomo diverso.
Andrea Lattanzi e Francesco Lombardo in una scena di Io e il Secco di Gianluca Santoni
Oltre al padre, c’è un altro uomo che entra nella vita di Denni, Il Secco.
Ci siamo resi conto che quello che stavamo raccontando era il rapporto tra un bambino e un ragazzo più grande, che è come se fosse un fratello maggiore. Sono accomunati dal fatto di aver rifiutato i rispettivi modelli paterni o di sentirsi improvvisamente persi nella ricerca di un nuovo modo di essere uomini.
Io e il secco è una dramedy in cui si susseguono toni diversi. Come si trova il giusto equilibrio in scrittura e durante le riprese?
Il tono è stato la mia ossessione. Questo mischiarsi di rabbia, tenerezza e ironia. Cercando di sforzarmi e capire quale film potesse essere stato d’ispirazione facevo molta fatica a individuare un titolo che gli somigliasse a tal punto da usarlo come modello. Tutto questo lavoro sul tono è stato fatto in scrittura tantissimo, ma soprattutto con la scelta del cast. Puoi mettere tutti quegli elementi nel testo ma poi quello che veramente ti dà le emozioni sono gli attori. La scelta di un bambino diverso avrebbe potuto dare un risultato completamente altro. Forse la tenacia e la rabbia espressa dal piccolo Francesco non sarebbero mai esistite con un altro personaggio. Lo stesso vale per l’ironia del Secco. Con un attore che non era Andrea Lattanzi si poteva magari raggiungere un bellissimo risultato. ma sicuramente diverso.
Come ha trovato Francesco Lombardo?
Ci sono voluti molti mesi di ricerca in tutta la Romagna e una parte dell’Emilia da parte mia e di una giovane aspirante sceneggiatrice, Giulia Campi, che avevo conosciuto a un concorso di scrittura. Lei è romagnola e siccome credo molto alla ricerca fatta sul territorio, sul passaparola, andando nelle scuole, sapevo che avevo bisogno di qualcuno che vivesse lì. Ho avuto l’istinto che lei potesse essere adatta anche se non l’aveva mai fatto. Attraverso tantissimi provini abbiamo capito che Francesco era perfetto per questa storia.
Ha lasciato del tempo a lui e ad Andrea Lattanzi per creare un legame sincero?
C’è sempre meno tempo di quanto si vorrebbe per fare tutto questo. Andrea è un attore straordinario perché, oltre a essere molto bravo, vive ogni film come una missione. Ha preso molti treni, fatto viaggi in macchina per essere presente ai numerosi call back con Francesco e gli altri bambini. L’ho scelto prima del protagonista e cercavo un bambino che funzionasse con il nostro Secco.
Una volta trovato Francesco ci siamo lasciati un paio di settimane per stare insieme. Quello che ho detto ad Andrea è stato di non pensare a fare le prove. Francesco non aveva il testo, ce l’avevano solo i suoi genitori. Gli abbiamo raccontato bene la storia e ogni scena prima di girarla lasciandogli anche la libertà di improvvisare. Nella preparazione non abbiamo provato ma ho detto ad Andrea di diventare il migliore amico di Francesco, di trovare la loro armonia.
Si è stupito ed emozionato nel vedere il piccolo Francesco incarnare così bene le emozioni di Denni nonostante non avesse mai recitato prima?
Il momento in cui ti rendi conto che sta succedendo è sempre magico. Ma più che una sorpresa, ormai, è qualcosa che cerco. È un po’ quello che ho sempre fatto, anche nei corti che ho girato prima del film. Ho sempre voluto mettere insieme un cast di attori con una formazione alle spalle e attori non professionisti. Cerco quella spontaneità, quel saper recitare senza rendersene conto. Perché la cosa che accomuna gli attori non professionisti bravi è il fatto che non sanno assolutamente di saper recitare. Probabilmente perché il punto di partenza è il non giudicarsi. Non chiedersi quale risultato stai ottenendo dicendo o facendo una cosa in un certo modo. Questo è il punto di partenza per trovare grandi attori non professionisti geniali. E poi, subito dopo, l’aderenza al ruolo.
Un aspetto interessante del film è l’uso dei colori.
Abbiamo lavorato con tutti i reparti in sinergia. Ci sono state diverse riunioni tra me, il direttore della fotografia Damjan Radovanović, la costumista Beatrice Giannini e lo scenografo Nicola Bruschi. Volevamo un po’ di quel clima da mare d’inverno che per noi era lo sfondo ideale per questa storia. Volevamo che i personaggi fossero in linea con questo mondo ma che, allo stesso tempo, spiccassero. La costumista ha avuto un’idea geniale di creare strati di colore negli abiti. I personaggi sembrano quasi appesantiti dai loro costumi, come se fosse il peso della situazione in cui si trovano. Ma sotto questo peso si nasconde del colore. Esiste per loro la possibilità di liberarsi e di far uscire quello che sono veramente. Ovvero dei colori bellissimi.
C’è un brano di Tiziano Ferro, Sere nere, che torna in più momenti nel corso del film. Perché proprio questa canzone?
È stato complicato far capire alla produzione che quella canzone era molto importante. Ma sono felice che alla fine se ne sia resa conto e abbia accolto l’idea. Con Michela l’avevamo inserita in sceneggiatura. Pensavamo a una canzone che potesse essere l’emblema del legame tra madre e figlio che si vede nel film. Serviva un brano che potesse essere malinconico e rabbioso allo stesso tempo. E che, in alcuni momenti, potesse anche far ridere. Come quando viene reinterpretata dal bambino. Non ci sono molte canzoni del genere. Soprattutto volevamo che fosse una canzone iconica. E Sere nere, per noi e per tutti quelli che c’erano quando è uscita, lo è.
È stato difficile ottenerla?
Io e il secco è un film piccolo. Mettere una grande canzone in un film del genere è sempre qualcosa che fa riflettere molto la produzione. “È così che vogliamo investire?”. Ma alla fine abbiamo chiarito pensando a tutti i possibili pezzi che avremmo potuto usare. Sere nere era davvero perfetto. E chiaramente è stata anche una scelta di regia. Il brano faceva parte della scrittura in modo molto importante e sostituirlo avrebbe significato indebolire il film. Abbiamo una produzione intelligente che lo ha capito.
La colonna sonora, invece, è firmata da Dade. Com’è stato coinvolto nel progetto?
Una sera a cena, parlando con la produttrice del film durante le riprese, mi ha raccontato di un suo amico, bassista di una band di Torino che si chiama Linea 77. Le ho detto: “So esattamente di chi stai parlando. Ero un loro grande fan quando ero ragazzino”. Stavamo cercando di ragionare su chi potesse fare le musiche per questo film perché era difficilissimo trovare quelle azzeccate. Essendo il tono del film particolare, avevo paura di banalizzare o di drammatizzare troppo con la musica. Dade era la prima volta che si cimentava con una colonna sonora e mi affascinava molto l’idea di ragionare sulle musiche con lui. Si è rivelata una scelta vincente forse proprio perché non aveva ancora lavorato per il cinema e magari era più portato a fare delle scelte non convenzionali.
Ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia. Che idea si è fatto di quello che è accaduto in questi mesi?
Purtroppo, essendo molto coinvolto con il film, sono stato troppo distante da quello che è successo. Molto più di quanto avrei voluto. Per me quella del Centro Sperimentale è stata un’esperienza incredibile. In generale è una grande scuola che cambia ovviamente quando cambiano gli insegnanti o chi gestisce la didattica. Come tutte le altre scuole, è fatta dalle persone, dall’elemento umano che si mette nel pensare alle lezioni e nell’interagire con gli studenti. Condivido la loro preoccupazione. Perché magari stavano vivendo un’esperienza positiva e hanno avuto paura che potesse cambiare.
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