Mungiu, Lanthimos, Ari Folman. Porumboiu, Tsangari, Maoz. Nanau, Makridis, Yedaya. E ora al Locarno Film Festival 2023 potremmo aggiungere Exarchou, Jude e Rosenberg. Ovvio che questo elenco, in cui brillano diverse assenze, è poco più di un gioco, ma andando a memoria è una lista che fa capire quanto e come le nouvelle vague romena, greca e israeliana abbiano cambiato la storia contemporanea del cinema, razziando i grandi festival internazionali con trionfi spesso inaspettati, modificando il linguaggio del cinema attuale, portando al centro di tutto nuove modalità espressive, attori di alto livello, contenuti fortissimi e provocatori, autori con una visione decisa e coraggiosa.
Il Locarno Film Festival 2023 non fa eccezione e appunto nel concorso internazionale, al giro di boa, propone tra i favoriti – non sarà facile il lavoro della giuria del concorso presieduta da Lambert Wilson – un tridente come quello formato da Animal di Sofia Exarchou, alla sua opera seconda dopo il notevolissimo Park; Do not expect tuo much of the end of the world di Radu Jude, già Orso d’argento a Berlino con il suo esordio Affermi! e poi Orso d’oro con il cult Sesso sfortunato o follie porno; The Vanishing Soldier di Dani Rosenberg, già cortista di alto livello e ora autore di solidi lungometraggi.
Cosa lega tre film così diversi per provenienza, stile, estetica? La voglia di provocare una reazione forte allo spettatore, di sfidarlo, di spogliare l’occidente capitalista e ferito da contraddizioni feroci con racconti apparentemente ingenui, laterali, che diventano laceranti e squassanti per il sentire e vedere comune.
Animal, il paradiso perduto di un resort
Lo è Animal, storia soprattutto al femminile di un resort e dei suoi animatori, di notti che lasciano ferite dentro corpi e anime costretti a replicare spettacoli, scenografie, gag e a indossare costumi sempre uguali, in modo ossessivo e parossistico. Di una violenza sorda nei confronti di vite sospese in quell’inferno all inclusive in cui i turisti sono vampiri che succhiano dai lavoratori sogni, linfa vitale, speranze. A partire dalla carismatica Dimitra Vlagopoulou che ha una fotogenia tutta sua davanti alla macchina da presa e che lei si prende senza tanti fronzoli. La sua Kalia è una splendida 40enne che non sa di esserlo e che è convinta di tener sotto controllo quell’esistenza di plastica stagionale per necessità e virtù, a cui si spezza qualcosa dentro quando si specchia in Eva (Flomaria Papadaki), nella sua illusione di aver trovato libertà in una prigione di finta felicità. Come molti altri loro colleghi, che spesso vengono da paesi in difficoltà.
The vanishing soldier, la diserzione di un (anti)eroe
Parliamo di quella felicità che cerca con ostinazione Shlomi (Ido Tako, bellissimo e molto bravo), che in The Vanishing Soldier mette insieme tutto e niente, in un’opera che supera i generi percorrendoli quasi tutti, dalla commedia sentimentale all’on the road, dal film “di fuga” allo slapstick, dalla tragedia al cinema civile-bellico. Shlomi è un soldato israeliano, 18enne, che è assegnato ai territori occupati di Gaza. In un attacco, si ferma. Paralizzato. E poi fugge, diserta, in modo rocambolesco e spesso assurdo, con una tragedia degli equivoci che lo mette costantemente a confronto con l’enormità delle conseguenze del suo gesto, normalissimo, per un ragazzo innamorato della vita, dell’amore e del futuro. Fugge dall’orrore. Ma se vivi in Israele, se tutti pretendono che tu sia il cuore di un paese e che rischi ogni giorno quella vita che vuoi percorrere in lungo e in largo, non c’è nulla di normale. E The Vanishing Soldier ce lo dice con un incedere antiretorico, con un cambio di linguaggi continuo, dal teen drama alla comicità, dalla tragedia all’action movie, e soprattutto con una franchezza che ci spiazza. Rosenberg ha il pregio di non fare un’operetta morale e moralistica, né tantomeno di essere politico nel senso ideologico e immediato del termine (per questo l’opera piacerà a pochi degli “impegnati”). Si limita, e lì sta tutta la grandezza del film, a un elogio disperato della diserzione come riconquista di sé e dei propri desideri.
Do not expect too much of the end of the world. Hey Radu Jude, you are a genious
Così come infine fa Radu Jude, il più strutturato tra i cineasti citati e anche quello da cui potevamo aspettarci – senza rimanerne delusi – l’opera più ambiziosa, idealista, impietosa. E la storia di chi come Angela (Ilinca Manolache, ancora una donna) attraversa Bucarest (da anni città di confine tra Occidente e Oriente, di sintesi di un’Europa ferita e ricomposta alla bene e meglio), per filmare il casting per un video relativo alla sicurezza sul lavoro, commissionato da una multinazionale la cui direttrice marketing è la pronipote di Goethe e citandolo proverà a risolvere l’intoppo piuttosto esecrabile rappresentato da Ovidiu, che proprio lavorando per la sua società, è rimasto vittima di un incidente.
Ma questo è solo lo spunto di un Radu Jude che fa dell’arguta satira sociale intessuta con la destrutturazione e ristrutturazione della propria modalità espressiva e visiva, intersecandola con un altro film, con una camera fissa – piano sequenza finali di 40 minuti, con un’ironia acida (in ogni senso possibile), con provocazione ed evocazione che sanno rimpallarsi battaglie di senso e di visioni che sfruttano più il pensiero laterale che qualsiasi altra cosa abbiamo visto in precedenza sul grande schermo. Jude è un maestro modernissimo che ha così tanto talento da sabotare se stesso solo per il gusto di mostrarci il suo genio, il suo talento, la sua allucinata anima politica e civile. E lo stesso vale per Angela, una e trina, terrena e nel multiverso, lavoratrice seriale, avatar e punk.
Atene (che Exarcou nella sua opera prima indagò nella crisi post Olimpiadi, rappresentata anche lì da un non luogo come il resort, ovvero il villaggio olimpico), Tel Aviv e Bucarest si riscoprono a Locarno capitali cinematografiche ben più centrali degli snodi industriali produttivi mainstream, nel loro essere città ferite e divise, avide di vita e speranza almeno quanto povertà, guerra e un passato immanente seminano ferite e morte. Sono la periferia che si impone prepotentemente al nostro immaginario, demolendolo, a volte ridicolizzandolo, più spesso solo mostrandocelo nel suo luccicante squallore.
Potremmo sbagliarci – e vorrebbe dire che in concorso ci sono ancora opere di questo livello o persino superiore, e sarebbe un’eccellente notizia -, ma buona parte del palmares del Locarno Film Festival uscirà da questi tre lavori che rappresentano un ulteriore tassello in una nouvelle vague europea che sa declinarsi su diverse culture, sguardi, impeti. Con una libertà rara.
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