Non ci sono prove che l’intelligenza artificiale sia in grado di rielaborare volontariamente testi coperti da copyright, con questa motivazione il tribunale ha respinto gran parte della causa intentata da Sarah Silverman contro Meta. L’attrice e comica aveva denunciato l’azienda per l’uso non autorizzato di libri protetti da copyright, serviti per formare il suo modello di intelligenza artificiale generativa.
Si tratta quindi della seconda sentenza che si schiera a favore delle aziende tech su questioni di IA e proprietà intellettuale, dopo quella che riguarda l’autore Julian Sancton, contro Microsoft e OpenAI.
Lunedì 20 novembre il giudice distrettuale degli Stati Uniti Vince Chhabria ha respinto con decisione una delle tesi principali della denuncia secondo cui il sistema di intelligenza artificiale di Meta è esso stesso un’opera derivata che viola il diritto d’autore, resa possibile solo da informazioni estratte da materiale protetto da copyright. “Questo è insensato”, ha scritto nella sentenza. “Non esiste alcun modo che consenta di ritenere gli stessi modelli del large language model di Meta (LLaMA) una rielaborazione o un adattamento di uno qualsiasi dei libri dei querelanti”.
Un’altra delle argomentazioni di Silverman, secondo cui ogni risultato prodotto dagli strumenti di intelligenza artificiale di Meta costituirebbe una violazione del diritto d’autore, è stata respinta perché la donna non ha fornito prove del fatto che uno qualsiasi dei risultati “possa essere inteso come una rielaborazione, trasformazione o adattamento dei libri dei querelanti”.
La denuncia di Silverman
Chhabria ha dato ai suoi avvocati la possibilità di ripresentare la richiesta, insieme ad altre cinque che non sono state ammesse. In particolare, Meta non si è mossa per respingere l’accusa che la riproduzione di libri ai fini della formazione del suo modello di intelligenza artificiale sia una violazione del diritto d’autore.
La sentenza si basa sulle conclusioni di un altro giudice federale che ha supervisionato una causa intentata da artisti che hanno citato in giudizio generatori di arte artificiale per l’uso di miliardi di immagini scaricate da internet come dati di formazione. In quel caso, il giudice distrettuale William Orrick ha assestato un duro colpo alle argomentazioni fondamentali della causa, mettendo in dubbio che gli artisti possano dimostrare una violazione del copyright in assenza di materiale identico creato dagli strumenti di IA. Ha definito le accuse “difettose sotto numerosi aspetti”.
Alcune delle questioni presentate nel contenzioso potrebbero decidere se i creatori sono compensati per l’uso del loro materiale per formare chatbot che imitano l’uomo e che hanno il potenziale di indebolire economicamente il loro lavoro. Le aziende di IA sostengono di non dover ottenere licenze perché sono protette dalla difesa del fair use contro le violazioni del copyright.
Secondo la querela presentata a luglio, il modello di IA di Meta “copia ogni pezzo di testo nel set di dati di formazione” e quindi “regola progressivamente il suo output per assomigliare più da vicino” alle espressioni estratte dal set di dati di formazione. L’azione legale ruotava intorno all’affermazione che l’intero scopo di LLaMA è quello di imitare espressioni protette da copyright e che l’intero modello dovrebbe essere considerato un’opera derivata in violazione.
Chhabria ha però definito l’argomentazione “non praticabile” in assenza di accuse o prove che suggeriscano che LLaMA, acronimo di Large Language Model Meta AI, sia stato “rifuso, trasformato o adattato” sulla base di un’opera preesistente coperta da copyright.
Le tesi di Sarah Silverman
Un’altra delle tesi principali di Silverman – insieme ad altri creatori che hanno citato in giudizio le aziende di IA – è che ogni output prodotto dai modelli di IA sia un prodotto derivato che viola il diritto d’autore, con le aziende che traggono vantaggio da ogni risposta avviata da utenti terzi, che si presume costituisca un atto di violazione vicaria. Il giudice ha concluso che i suoi avvocati, che rappresentano anche gli artisti che hanno fatto causa a StabilityAI, DeviantArt e Midjourney, “sbagliano” – poiché i loro libri sono stati interamente riprodotti come parte del processo di formazione di LLaMA – non è necessaria la prova di risultati sostanzialmente simili.
Per prevalere su una teoria secondo cui i prodotti di LLaMA costituiscono una violazione derivata, i querelanti dovrebbero effettivamente sostenere e infine dimostrare che i prodotti “incorporano in qualche forma una parte dei libri dei querelanti”, ha scritto Chhabria. Il suo ragionamento rispecchia quello di Orrick, che nella causa contro StabilityAI ha stabilito che “l’opera derivata del presunto trasgressore deve comunque presentare una certa somiglianza con l’opera originale o contenere gli elementi protetti dell’opera originale”.
Ciò significa che nella maggior parte dei casi i querelanti dovranno presentare prove di opere in violazione prodotte da strumenti di IA che siano identiche al loro materiale protetto da copyright. Ciò rappresenta potenzialmente un problema importante, poiché in alcuni casi i querelanti hanno ammesso che nessuno dei risultati è in grado di corrispondere al materiale utilizzato nei dati di formazione. Secondo la legge sul diritto d’autore, per valutare il grado di somiglianza si utilizza un test di somiglianza sostanziale per determinare se si è verificata una violazione.
Le altre richieste di risarcimento respinte nell’ordinanza di Chhabria includono quelle relative all’arricchimento senza causa e alla violazione delle leggi sulla concorrenza. Nella misura in cui si basano sulla rivendicazione di violazione del diritto d’autore, Chhabria ha ritenuto che siano escluse. Meta non ha risposto immediatamente a una richiesta di commento. A luglio, Silverman si è anche unita a una class action contro OpenAI, accusando l’azienda di violazione del copyright. Il caso è stato consolidato con altre cause intentate da autori in una corte federale.
Traduzione di Pietro Cecioni
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