La passerella di Antonio Marras è diventata un set dove girare il remake di un film hollywoodiano degli anni Sessanta. Durante la Fashion Week di Milano, lo stilista sardo ha allestito un vero e proprio studio cinematografico, con vari ambienti in cui si alternano attori, attrici, lavoranti, dive, segretaria di produzione, costumista, segretaria di edizione, assistente personale, sarta, regista, produttore, coordinatore del set, ciakkista, fonico macchinista, comparse, modelle e modelli e aspiranti attrici. In un baleno ci ritroviamo catapultati alla fine degli anni d’oro del cinema, tra kaftani evanescenti e ondivaghi, abiti couture, vestaglie, tailleur sartoriali strizzati in vita, look maschili over, spolverini, tubini e abiti da sera drammatici e divini.
Il tutto per ricreare le atmosfere del film Boom! di Joseph Losey, tradotto in italiano La scogliera dei desideri. Sceneggiato da Tennessee Williams dal suo script teatrale The Milk Train Doesn’t Stop Here Anymore (Il treno del latte non ferma più qui) e interpretato da Elizabeth Taylor e Richard Burton, il film ha catapultato Hollywood nel mezzo di un paese incontaminato, vergine e selvatico, proprio come Alghero, in Sardegna. La Milano modaiola per trenta minuti rivive così la frenesia di un set cinematografico di una grande produzione americana. Uno dei tanti film che gli Studios dell’epoca decisero di venire a girare nel nostro Paese. Antonio Marras, stilista, sardo fino al midollo, ma cittadino del mondo, è incappato recentemente nel docu-film di Sergio Naitza L’estate di Joe, Liz e Richard, che ricostruisce la lavorazione di un film destinato a diventare, nel bene e nel male, un grande cult. Tutto parte da lì.
Perché ha scelto proprio questo film?
Perché nel 1967 la Paramount Pictures decise di produrre un film con la regia di Joseph Losey, con Richard Burton ed Elizabeth Taylor come protagonisti. Dovevano girare tutto in un’isola nel Mediterraneo e scelsero proprio la Sardegna. Io avevo sei anni ma mi ricordo tutto, eccome se mi ricordo. Come per magia, dal Monte Lee, Hollywood atterra vicino a casa mia, ai confini dell’Impero, nella terra più pura e incontaminata del mondo. La cosa straordinaria è che la location prescelta fu proprio Alghero, dove vennero costruite due ville incredibili sul promontorio a strapiombo di Capo Caccia. La prima villa venne abbattuta dal vento e ne dovettero costruire subito un’altra. Come non esserne affascinato?
Un bel colpo per il territorio?
Molto. La cosa più divertente fu l’arrivo di questi due signori, che all’epoca rappresentavano i divi per eccellenza con le loro esigenze, le difficoltà della troupe, i capricci di Elizabeth Taylor, per cui gli acini d’uva sardi erano troppo grossi, quindi si faceva portare tutti i giorni l’uva da Roma. Nemmeno il cibo le andava bene, quindi tutti i giorni un aereo da Londra portava tutto quello che lei doveva mangiare. Liz aveva un problema con l’acconciatura? Facevano arrivare il celebre coiffeur Alexandre de Paris. Gli abiti erano realizzati da una sartoria romana, dall’Atelier Tiziano. E pensate che il ragazzo che li disegnava si chiamava Karl Lagerfeld. Ebbe una genesi veramente super travagliata, ma è un film pieno di aneddoti.
Alghero alle prese con il jet set.
Immaginate cosa può voler dire per Alghero nel ’67 avere questi due signori che giravano per la passeggiata del paese. Lui che si fermava nelle bettole più infime perché beveva come una spugna. E con il tempo il film, le star, gli avvenimenti, le comparse del luogo, i pettegolezzi, i tentativi di rapimento, il mega yacht Kalizma della coppia stellare con cani, bambini, cuochi, capitani e marinai al seguito, i gioielli di Bulgari della Diva, il tanto alcool, le liti fra i due protagonisti, la falesia di 186 metri di Capo Caccia e la villa bianca stratosferica a picco sul mare che, agitato, continua a sbattere sugli scogli e il vento. Il tutto ha assunto un’aura di mito.
Un film che non è rimasto però negli annali.
Fu un flop internazionale, non è mai andato da nessuna parte anche se è stato tradotto in 15 lingue. Nacque da un progetto fatto per il teatro che, anche se aveva degli attori straordinari, fu un vero e proprio disastro. Divenne quindi un film che uscì nel 67 in piena rivoluzione, in piena contestazione, fuori dal tempo. Fuori da ogni logica per quel momento.
E come è arrivato a lei?
Perché in seguito divenne un film amato e venerato da tutti, impiegato nelle rassegne, nei cinema d’essai. E grazie al docu-film di Sergio Naitza.
Ma il film le è almeno piaciuto?
Non è un film che ti colpisce, non è proprio esattamente un capolavoro. Forse per questo non luogo. Tutto è girato all’interno di questa villa quindi, con una sorta di bolla temporale nella quale lei vive. È una storia abbastanza drammatica, perché la protagonista aspetta questo ragazzo, questo angelo della morte che la fa star male. Liz fa cambiare la sceneggiatura e invece del ragazzo giovane vuole al suo posto Richard Burton. Più che il film, a me ha affascinato proprio la genesi del progetto.
Il risultato di questa ispirazione quale è stato?
Ho racconto quello che è il mio immaginario, quello che è il mio ideale hollywoodiano. Ho pensato alla diva, al divo, all’assistente, al produttore, al macchinista, al ciakkista. Tutto questo mondo l’ho tradotto in abiti che hanno una leggerezza, una fluidità, una morbidezza data dai tessuti e dai volumi e a contrasto delle costruzioni veramente super couture, super sartoriali, che trasformano completamente la silhouette.
La sua passerella è diventata un set cinematografico.
Abbiamo ricostruito gli ambienti della villa con i vari set: la camera da letto, la camera da pranzo, la macchina, gli oggetti. Ci sono stati davvero due momenti di vero cinema con tanto di macchinisti, ciacchisti, microfonisti, produttori, registi e una star internazionale straordinaria come Marisa Berenson che si è prestata a questo gioco.
Ha fatto vestire i panni di Liz Taylor a Marisa Berenson.
Ho pensato che prima di tutto ci dovesse essere una Diva, una Diva vera, con la D maiuscola, che non si inventa né si improvvisa. Una Diva che potesse bene interpretare un mondo alla Hollywood Babilonia dove tutto è possibile, dove un desiderio è un ordine, dove l’inimmaginabile diventa quotidianità. Basta pensarlo, scriverlo e girarlo. Marisa Berenson si affaccia, girovaga, fluttua. Fascino, talento, interpretazione, Diva tra arte e vita. Ha interpretato magnificamente la parte. Lei, che nella realtà è sempre una donna tranquillissima, pacata, dolcissima, meravigliosa, per la sfilata l’ho trasformata in una vera stronza cattivissima,
Anche la musica ha giocato un ruolo fondamentale per ricreare il mood di quegli anni?
Ho messo delle musiche che riecheggiano i film. Sono tutte colonne sonore.
Quale è il suo rapporto con il cinema?
Io sono un amante del cinema, però quello visto sul grande schermo, quindi con la tenda che si chiude, la sedia in velluto. Perché il cinema è l’unico modo per viaggiare e isolarti da tutto il resto. Audrey Hepburn diceva: “Everything I learned, I learned from the movies”. Ovvero, “Tutto quello che ho imparato l’ho imparato dai film.”
Ha attinto spesso al cinema per la sua moda?
Io uso la moda per raccontare e l’ho imparato andando al cinema. Il cinema, fonte inesauribile di storie, di sogni, di mood, di personaggi, di costumi, di set, di racconti di esistenze eccezionali o di straordinaria normalità. Il cinema è indispensabile compagno di vita. E ancora di più per me, per il lavoro che mi sono ritrovato a fare. Io, onnivoro di cinema, ho trascorso la mia adolescenza seduto tra il Selva e il Miramare di Alghero, vedendo e rivedendo in loop film che ancora ora fanno parte del mio vissuto. I personaggi sono famiglia, comprimari ai parenti, le loro storie sono le mie storie, le loro vicende le ho provate anch’io, quello che sono è anche il risultato di quello che ho visto al cinema. Intimo e corale, condivisione e momento di interiorità, come nessun’altra forma di spettacolo lo è. Quando si spegne la luce e parte la musica con i titoli di testa è come se ci imbarcassimo in una navicella spaziale che ti porta altrove e niente importa più.
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