Quella che andrà in scena dal primo giugno sarà la ventiduesima edizione. Più di due decenni in cui il Film at Lincoln Center – l’organizzazione newyorkese che promuove il cinema indipendente americano e mondiale – organizza uno dei più importanti festival di cinema italiano, in collaborazione con Cinecittà. Si chiama Open Roads: New Italian Cinema e già il nome rende chiaro il suo scopo: raccontare il cinema italiano senza nostalgie per il passato, senza sentimentalismo per quello che era, ma anzi concentrandosi sul presente e sul futuro, sui giovani cineasti i cui film spesso non arrivano nei grandi cinema americani.
Per sei giorni l’istituzione newyorkese nella sua sede all’interno del complesso del Lincoln Center ospiterà proiezioni e incontri anche con registi affermati che presentano in anteprima nuovi lavori, come testimoniano i nomi di Marco Bellocchio e Daniele Ciprì, passando per Pappi Corsicato, Elisa Fuksas, Salvatore Mereu, Susanna Nicchiarelli, Maria Sole Tognazzi, solo per citare i più recenti. In attesa del programma dettagliato abbiamo parlato con Dan Sullivan, curatore di Open Roads da diversi anni.
Come nasce Open Roads e perché?
Nasce più di venti anni fa con quella che allora si chiamava Film Society of Lincoln Center e ora è Film at Lincoln Center e nasce per volere di Richard Penia, allora direttore della programmazione e di Antonio Monda, in collaborazione con Cinecittà. È banale dirlo, ma quando si parla di cinema internazionale, il cinema italiano ha un profilo molto grande qui negli Stati Uniti, alla pari se non di più rispetto al cinema francese e a quello giapponese. Open Roads nasce dalla volontà di soddisfare la sete dei newyorkesi, sempre ansiosi di restare aggiornati su cosa c’è di nuovo nel cinema italiano che così tanto amano. La produzione cinematografica italiana è abbondante, ma solo una piccola percentuale viene distribuita nei cinema americani o
arriva nei festival. Avere una vetrina concentrata del cinema italiano contemporaneo era una cosa che venti anni fa sembrava interessante e attraente per il pubblico e infatti lo è ancora oggi.
L’interesse è per il cinema contemporaneo, non per i grandi classici.
Tutti i film che proiettiamo sono anteprime per la città di New York. In passato abbiamo avuto degli elementi di repertorio, una volta ogni tanto proiettiamo un vecchio film particolarmente rilevante come ad esempio l’anno scorso, in omaggio a Monica Viti, abbiamo incluso Deserto Rosso di Antonioni, ma nel complesso, il 99% della selezione sono film nuovi mai proiettati a New York.
Che cosa cerchi nei film che selezioni per Open Roads?
L’elemento sorpresa: sono molto aperto a tutto ciò che mi può stupire, qualcosa che non ho mai visto prima o qualcosa di completamente diverso rispetto alla produzione precedente di quel o quella regista. A questo aggiungo che tengo sempre in considerazione il pubblico a cui ci rivolgiamo: Open Roads è per loro qualcosa di piacevole, come un delizioso buffet da cui poter scegliere.
C’è una differente considerazione per i film più mainstream e per quelli più indipendenti?
In realtà no. Non abbiamo problemi a selezionare film italiani più grandi e tradizionali a patto che siano nuovi per il pubblico americano, ma vogliamo sempre lasciare spazio a film più impegnativi, underground, sperimentali, indipendenti, eccetera. In questo senso non siamo alla ricerca di niente in particolare, ci guida solo la qualità.
Come vedi lo status del cinema italiano della tua prospettiva privilegiata?
Ho un’opinione molto alta dell’Italia e penso che molto abbia proprio a che fare con le generazioni emergenti di cineasti italiani. Alcuni di loro si sono affermati abbastanza rapidamente e mi riferisco a persone come Alice Rohrwacher e Piero Marcello. Penso siano alcuni dei migliori talenti che lavorano oggi nel cinema mondiale. Dal mio punto di vista il futuro
è roseo.
In Italia si sta producendo molto, ma come hai detto anche tu sono pochi i film che vengono
distribuiti in Usa. È un problema di temi, di respiro, di cosa?
Non credo che sia un problema del cinema italiano nello specifico, credo sia un tema generale: in questo momento il cinema internazionale, a parte rare eccezioni, fa fatica a trovare spazio. Ma sul cinema italiano non sono per niente pessimista: è comunque, sempre parte della conversazione, è sempre nel mix, anche se ora, per motivi di alternanza storica, magari va più il
cinema asiatico.
Il pubblico del Lincoln Center è un pubblico molto sofisticato, esperto, spesso fatto di cinefili. Cosa pensi che apprezzi di più del cinema italiano?
La varietà, il fatto che si alternino commedie, drammi, film dai toni completamenti diversi. L’altro aspetto è il senso di continuità con il passato: quello che guardano oggi si inserisce nell’ampio continuum storico dei grandi cineasti italiani del passato. Non ultimo, penso che agli americani piaccia sempre guardare all’Italia (ride, ndr).
Ultima domanda: Open Roads proietta ovviamente film italiani in lingua originale con sottotitoli in inglese. Qualcuno si è mai lamentato?
Fortunatamente no, ma se anche lo avesse fatto, lo avrei ignorato. Sono molto grato che non dobbiamo mostrare nessuno di questi film orrendamente doppiato in inglese.
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