Finzione e realtà si sovrappongono nel racconto di un’emergenza sanitaria e sociale che passa apparentemente sotto i radar negli Stati Uniti, la dipendenza da oppioidi sintetici, dal fentanyl all’ossicodone. Registi e showrunner, film e serie tv, la stanno già raccontando da anni, mentre continuano a sommarsi notizie di morte per overdose che, in alcuni casi, coinvolgono volti noti dello spettacolo.
Le ultime riguardano il nipote di Robert De Niro, morto a inizio estate a diciannove anni, e Angus Cloud, l’attore di Euphoria scomparso lo scorso 31 luglio per un mix di cocaina, metanfetamine, benzodiazepine e fentanyl (come rivelato il 21 settembre dal comunicato del suo medico legale). L’associazione con una delle sequenze più forti della serie di Sam Levinson è quasi immediata. Il venticinquenne verrà infatti ricordato anche per la potentissima e controversa scena in cui Rue (Zendaya) assume l’oppioide e cade in uno stato catatonico inquietante. Era soltanto il secondo episodio, andato in onda per la prima volta già quattro anni fa, a giugno del 2019.
Dalla stampa al cinema e alla tv
Pochi mesi prima, a febbraio, la fotografa Nan Goldin entrava nel museo Guggenheim di New York insieme a decine di altri attivisti. La sua fu una delle più celebri proteste contro la famiglia Sackler, proprietaria della Purdue Pharma produttrice dell’OxyContin (ossicodone) e nota finanziatrice di intere sale dei musei di tutto il mondo, Guggenheim di New York compreso. La Pioggia di prescrizioni mediche, nome della performance, cade fra le spirali bianche del celebre edificio di Frank Lloyd Wright, mentre un coro di voci, fino a quel momento nascoste fra i visitatori abituali, si alza urlando e ripetendo: “Quattrocento mila morti”. A riprendere il flashmob è la regista Laura Poitras, che lo trasforma in una sequenza cardine del suo film Leone d’oro, il documentario Tutta la bellezza e il dolore.
A spingere la protesta di Goldin è la certezza che la casa farmaceutica, ripulendosi la reputazione in opere di mecenatismo, sia responsabile dell’espansione della dipendenza da oppiacei negli Stati Uniti senza resistenze da parte delle istituzioni. Il legame tragico tra Goldin e Purdue Pharma ha origine dopo un banale incidente e la regolare prescrizione di un antidolorifico, l’OxyContin, molto comune negli Stati Uniti nonostante il forte effetto narcotico. La dipendenza è immediata, il costo troppo elevato. Goldin, come altri prima e dopo di lei, passa così all’eroina tagliata con il fentanyl, e l’overdose arriva presto, insieme alla consapevolezza di volersi disintossicare.
La lotta personale diventa collettiva quando la fotografa scopre un articolo di Patrick Redden Keefe sul New Yorker (The Family That Built an Empire of Pain, 30 ottobre 2017). Il più importante, ma non l’unico, intervento dei media sull’epidemia da oppioidi negli Stati Uniti. Già dagli anni Novanta, infatti, anche la giornalista Beth Macy portava avanti una simile inchiesta confluita nel libro Dopesick: Dealers, Doctors, and the Drug Company that Addicted America (2018), da cui è tratta una delle serie tv più premiate delle scorse stagioni, Dopesick – Dichiarazione di dipendenza, con Michael Keaton.
Attraverso diverse storie e punti di vista la serie esplora, ancor più del film di Poitras, il tessuto sociale in cui gli oppioidi si diffondono e il sistema di corruzione che ne è al di sopra.
L’emergenza dichiarata da Trump
È proprio grazie all’articolo di Keefe che il governo Trump nel 2017 si vede costretto a riconoscere ufficialmente la crisi degli oppioidi come emergenza sanitaria nazionale. Una strage che negli anni ha registrato in media un centinaio di morti al giorno, milioni di prescrizioni scorrette e soltanto nel 2022 più di 100 mila decessi. In vent’anni, dal 1999 al 2019, le vittime di overdose hanno raggiunto il mezzo milione negli Usa. Centomila persone in più di quelle urlate da Nan Goldin e dagli altri manifestanti al Guggenheim. E questo non è bastato.
Lo dimostra il silenzio con cui è passata quasi inosservata la notizia del bambino di due anni, morto a metà settembre di quest’anno a New York per un chilo di fentanyl nascosto sotto la culla dell’asilo. O il disinteresse per una serie come Painkiller, disponibile ormai dal 10 agosto su Netflix e frettolosamente archiviata come un racconto generico sulle dipendenze.
Una storia che si ripete
Painkiller è solo l’ultimo e il più recente tentativo di rappresentare l’emergenza-oppioidi in una forma che riesca a catturare l’attenzione di un pubblico ampio. Dopo che né il Leone d’oro a Laura Poitras né il Golden Globe e l’Emmy a Michael Keaton sono riusciti nell’intento. A differenza di un altro contenuto della piattaforma Netflix, Crack: Cocaine, Corruption & Conspiracy, non si tratta di un documentario, ma di una forma ibrida. Proprio come l’altrettanto ignorato documentario, però, ricostruisce le ragioni sociali di quella che negli Stati Uniti prende il nome di vera e propria “epidemia”.
Che si ripete. Negli anni Ottanta , infatti, era stato il crack a diffondersi in modo incontrollabile (nella comunità afroamericana) con cadaveri a ogni angolo e un conseguente incremento di crimini e violenza urbana. Le stesse scene si ripetono da quasi 25 anni per l’abuso di fentanyl e ossicodone, diventando un’emergenza trasversale a ogni gruppo sociale, ma ancora sottovalutata. Il perché prova a spiegarlo proprio Painkiller.
Painkiller è una rielaborazione dell’articolo di Patrick Redden Keefe e del libro di Beth Macy. Costruisce un personaggio, Edi Flowers (Uzo Aduba) che fa da Caronte nell’inferno creato dalla famiglia Sackler. Un nome che non si ritrova nei reali atti processuali ma che è il filo conduttore tra diverse storie e diverse voci. All’inizio di ciascuno dei sei episodi, altrettante testimonianze di persone reali, che hanno perso la loro famiglia, ricordano che tutto è romanzato ma niente è falso. È solo travestito da dramma poliziesco dove ancora una volta finzione e realtà coesistono.
E benché sia chiaro che è il “dio denaro” il movente di questo mezzo milione di “omicidi”- dovuti alla classificazione scorretta dei farmaci, ma per legge ancora senza un colpevole – colpisce ugualmente il distacco calcolatore che l’ha reso possibile. La serie non potrebbe spiegarlo in modo più eloquente: l’epidemia di oppioidi è il risultato di un’operazione matematica ed economica precisa. La combinazione del bisogno, tutto occidentale, di eliminare il dolore in ogni sua forma e l’efficientissimo sistema di promozione e vendita dei farmaci, più potenti della morfina e dell’eroina, eppure prescritti come normali antidolorifici.
A questo punto tutto è stato detto, in ogni forma. Nel cinema d’autore di Laura Poitras, nel dramma acchiappa-premi con Michael Keaton e negli esperimenti sopra le righe di Netflix. Eppure sembra esserci ancora una barriera tra le denunce urlate da questi prodotti e le masse.
Il potere adesso in mano ai media, al cinema e alla televisione – che è il potere di dare a una storia la forma in cui verrà ricordata – rischia di sgretolarsi contro questa barriera ancor prima di riuscire a fare la differenza. A meno che non inizi ora il passaparola.
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